Mi chiamo Francesco, ho quasi 30 anni e da quando ne avevo poco meno di 18 vivo in un perenne stato di crisi. Crisi finanziaria, crisi economica, crisi del debito pubblico e privato, crisi occupazionale, crisi ambientale, crisi democratica, crisi della rappresentanza, ora crisi sanitaria.

In questo scenario di perenne angoscia per il futuro sono andato incontro al mondo degli adulti, delle responsabilità e dei doveri. Verso me stesso, la mia famiglia, ma anche verso la mia comunità e verso lo Stato. Tante ragazze e tanti ragazzi della mia generazione hanno fatto lo stesso. E quale panorama ci si è aperto davanti? Spesso, abbiamo trovato intorno a noi un clima di forte sfiducia e disinteresse.

Poche realtà, pubbliche o private che siano, investono sui giovani, sul futuro, sulle competenze.

Le storie che sentiamo sono tutte molto simili: chi si accontenta del contratto che è riuscito a strappare, in cambio di una certa svalorizzazione della propria professionalità; chi ha studiato tanto per coltivare il proprio sogno e si vede costretto ad accettare condizioni lavorative umilianti e precarie; chi lavora perché conosce l’amico dell’amico, perché “lo sai che in Italia funziona così”; chi si batte affinché vengano premiati i meritevoli e in cambio viene isolato se non addirittura allontanato da parte dei vertici, con la complicità di coloro che invece dovrebbero sostenerlo e fare fronte comune contro la corruzione e le logiche clientelari. Ci si tiene stretti il poco che si ha, molte volte, piuttosto che pretendere di meglio e rischiare di perdere tutto.

Certo, esistono anche esempi positivi, in particolare nei settori economici ad alto valore aggiunto, nella piccola imprenditorialità e nelle start-up giovanili, nel terzo settore e nel mondo della cooperazione. Ma sono realtà di nicchia, altamente specializzate, contraddistinte da un capitale umano e sociale che spesso afferisce alle classi più abbienti, a circuiti già ben inseriti nel tessuto socio-economico.

I numeri parlano chiaro e presentano un quadro caratterizzato da preoccupanti disuguaglianze: esistono gap settoriali, generazionali, territoriali e soprattutto di genere ed etnici. I figli di genitori stranieri e le donne sono senza dubbio più penalizzati nella costruzione del loro futuro. E questo perché l’ascensore sociale è stato bloccato, oltre a gravi fattori di arretratezza culturale che tristemente ci segnalano ancora come un paese retrogrado, rispetto a molti altri partner europei.

Se questo è ciò che accade nella società, nello Stato e nella Pubblica Amministrazione le cose non sono migliori: il nostro sistema pubblico non ha saputo rinnovvarsi a sufficienza negli ultimi decenni, così da garantire i servizi per cui i lavoratori, i pensionati, i professionisti e gli imprenditori delle fasce sociali mediane e meno abbienti pagano un carico fiscale altissimo e spesso ingiustificato rispetto alla qualità degli stessi.

Chi è chiamato a vigilare sul rispetto e l’applicazione della legge, chi è responsabile della nostra salute, chi si prende cura e forma i nostri giovani spesso rimane solo, nel tentativo di compiere il proprio dovere con serietà e impegno. Se lavorano con disciplina e onore, sono eroi sulle cui spalle grava la necessità di sopperire alle mancanze di sistema, se invece palesano difficoltà e non si adeguano, diventano i primi responsabili delle inefficienze. Il gioco dello scarico di responsabilità sui soggetti più deboli della catena è da tempo uno “sport nazionale”.

Nonostante ciò ancora oggi resistono numerose realtà virtuose e innovative su tutto il territorio, che andrebbero prese ad esempio e valorizzate. Luoghi in cui le persone che lavorano sanno creare valore, con passione, impegno, tenacia.

Infine, ci pensano i numeri a darci conferma della congiuntura in cui ci troviamo: negli ultimi quarant’anni non siamo stati in grado di riformare adeguatamente lo Stato per sfruttare nel migliore dei modi la nascita dell’Unione Europea e dell’area Euro, dilapidando miliardi su miliardi; la crescita economica e gli investimenti sono rimasti a livelli bassissimi mentre l’indebitamento pubblico e privato, così come i costi connessi, sono sempre cresciuti; ci siamo impoveriti a causa delle varie crisi, perché di fronte alle emergenze siamo sempre stati meno preparati dei nostri alleati europei a farvi fronte; le disuguaglianze sociali, come detto, sono aumentate; nascono sempre meno bambini e bambine, anche tra la popolazione immigrata, e questo è un tema che va analizzato fuori ideologie, perché è economicamente disastroso per il nostro futuro; le “morti bianche”, causate dalla mancanza di responsabilità e senso del dovere, sono numerosissime. Da chi muore sul posto di lavoro, chi si ammala a causa dell’inquinamento prodotto in certi distretti produttivi, chi finisce sepolto dalle macerie di opere pubbliche e abitazioni mal concepite, fino alle vittime della Covid-19, il filo rosso è sempre lo stesso: lo Stato non è più in grado di garantire la salute e il benessere di tutti i suoi cittadini.

A che serve, dunque, lo Stato?

Al momento, potremmo provocatoriamente dire che serve a mantenere una classe dirigente e politica profondamente inadeguata, molto più preoccupata di conquistare e mantenere il potere per perseguire i propri interessi di parte piuttosto che svolgere i propri compiti con alto senso delle istituzioni e con il focus puntato sul bene comune. Ma non possiamo cadere nuovamente nelle trappole retoriche dell’anti-casta. Se infatti le responsabilità dei decisori e degli amministratori sono evidenti, al tempo stesso ampie fette della popolazione italiana sono da considerarsi complici di tutto questo. Perché se è vero che ai vertici dello Stato siedono spesso i rappresentanti di potentati, consorterie e clientele, senza che vi sia più una selezione della classe dirigente sulla base dei migliori, è anche vero che a tutti i livelli è possibile ritrovare le stesse oscene dinamiche. Lo stesso uso privato del potere e delle risorse pubbliche. Chi sistema amici e parenti, chi fa i favori e viene ricompensato, chi chiude un occhio e lascia che altri agiscano indisturbati. Intanto, chi resta fuori da questi schemi, o si divide in fazioni e si insulta sui social network oppure è del tutto indifferente e disinteressato. In alternativa c’è chi emigra: sono milioni che lo stanno facendo negli ultimi anni, soprattutto tra i più giovani.

Nonostante tutto questo, nonostante le evidenti conseguenze di una degenerazione complessiva, tutto si ripete, tutto si perpetua uguale a sé stesso. All’ennesimo precipitare di eventi drammatici, la cittadinanza continua a non reagire. Sembra non avere la forza o peggio la volontà di farlo. Questa volta in gioco non c’è soltanto la tenuta economica della nazione, ma la sua salute e sopravvivenza, la sua dignità di fronte agli alleati europei.

La ragione per cui, nell’arco di dieci anni, il governo del paese è stato “commissariato” dall’Unione Europea e dal Presidente della Repubblica di turno per ben due volte è determinata dallo stato di cose descritto, a fronte del quale la popolazione non dimostra alcun sussulto, alcun segno di reazione, piuttosto si abbandona esclusivamente alla rassegnazione e all’indignazione. Ma queste non bastano più! E allora la battaglia tra chi incarna i valori democratici della Repubblica e della Costituzione, agendo nel proprio ruolo con disciplina e onore, contro chi fa un uso privato della cosa pubblica, favorendo un personale politico e amministrativo inadeguato e incapace, non diventa determinante solo in patria ma diviene un fatto di credibilità politica internazionale, che nel mondo di oggi è altrettanto importante.

Chi può combattere questa battaglia?

Soltanto noi, la parte sana della nazione! Quella che tutti i giorni si sveglia e va’ a lavoro, crea opportunità di crescita e sviluppo, garantisce la legalità e il buon funzionamento del sistema, agisce con grande attenzione nel rispetto della propria comunità e ne promuove la crescita. Non è più il tempo dell’indifferenza, è giunto il momento di schierarsi. Non tra destra e sinistra o tra nord e sud, né sulla base delle tifoserie, ma tra chi ha a cuore il futuro della propria comunità e chi continua a calpestare i valori morali su cui si fonda la Repubblica italiana, nata dal sacrificio dei nostri giovanissimi partigiani.

A questo proposito, il tentativo di Mario Draghi, a mio avviso, va’ nella giusta direzione. Nato per affrontare le emergenze, in realtà ha un compito molto più difficile e profondo: gettare le basi per il futuro in maniera determinante. Non può bastare e non basterà mai dare enorme credito ad un singolo individuo, per quanto preparato, di fronte alle sfide che abbiamo. E infatti, sapendo bene quali sono le difficoltà che il paese vive, avendo chiaro dove bisogna intervenire subito e con decisione, il Presidente Mattarella ha chiesto un impegno unitario a tutte le forze politiche di fronte al Paese.

Questo non vuol dire che potremo fidarci a occhi chiusi, che accetteremo le scelte a scatola chiusa, in ossequio ad uno spirito ecumenico di unità nazionale che parrebbe ipocrita. Anzi, proprio perché non possiamo più farlo, proprio perché è necessario porre grande attenzione a ciò che viene deciso in questo momento di straordinarietà politica e sociale, a mio avviso è di nuovo il momento delle 6000 Sardine.

A chi risponderà una maggioranza parlamentare tanto eterogenea? A chi renderà conto il nascente governo, quando i corpi intermedi vedono sempre più assottigliarsi la loro base sociale? A noi, la cittadinanza, gli unici che possano legittimare un’operazione politica tanto complessa quanto inevitabile. Non facciamoci ingannare da chi parla di governo di destra, di sinistra, delle banche, dei poteri forti, della Troika o di chi altro. Questo governo è il governo della Repubblica italiana, il suo lavoro e i suoi risultati dipendono anche dalla nostra partecipazione attiva e attenta. Il magma politico in cui si troverà a navigare il nuovo esecutivo ci dimostra una volta di più quale sia il crinale su cui si dividono le grandi democrazie europee: restare autorevolmente dentro consessi internazionali fondati sul diritto e sulla cooperazione fra nazioni, nel solco dei valori democratici, oppure seguire l’esempio della Brexit, affidandosi ad un nazionalismo becero, che nei paesi democraticamente più fragili (come il nostro) assume coloriture autoritarie e reazionarie. Inoltre, dovremo decidere se continuare a farci confondere dalle sirene del populismo che insegue facili consensi di breve periodo o se invece dovremo imparare a cambiare prospettiva, agendo con razionalità e rigore, con lo sguardo rivolto ai prossimi decenni.

Questo nuovo esecutivo deve essere soltanto l’inizio di una stagione nuova, che veda tutte le forze politiche rinnovarsi per garantire che siano i migliori ad emergere e a raggiungere le più importanti responsabilità pubbliche, che metta al centro lo sviluppo e l’innovazione compatibili con la transizione ecologica di cui abbiamo estremo bisogno, e poi gli investimenti sul futuro, sulle nuove tecnologie e infrastrutture, che creino le condizioni perché le nuove generazioni possano finalmente godere dei frutti del loro impegno e della loro partecipazione al progresso del paese. 

Quale ruolo possono giocare le 6000 Sardine in tutto questo?

A mio avviso, il nostro compito è quello di tornare a mobilitare le persone, con forme nuove e creative, fuori dal virtuale, di nuovo dentro al reale. Abbiamo bisogno di un nuovo inizio, che non prenda le mosse da un’iniziativa particolare e localistica, ma che abbracci tutta la nazione, da Aosta a Siracusa. Dobbiamo ispirare un modo nuovo di elaborare un discorso politico, attraverso un collettivo narrare che si sviluppi a partire dai territori e sulla rete, come un’orchestra che suona insieme e ad ogni aggiunta di un nuovo strumento sappia evolvere la propria melodia. Al contempo, dovremo dare grande importanza alla tessitura di relazioni con chi già oggi sui territori lavora a stretto contatto con la popolazione, su tematiche a noi affini e sulla base di valori da noi condivisi. E perché le parole non siano fini a sé stesse, ma diano gambe a scelte e azioni, due dovranno essere i valori fondanti del nostro agire sul panorama nazionale: l’inclusione sociale e lo sviluppo democratico del paese. Perché ci sono domande sociali rimaste inevase, questioni aperte molto dolorose o che potrebbero esserlo in futuro, se nessuno darà loro voce e spingerà l’intera comunità a farsene carico.

Quale sarà il destino delle centinaia di migliaia di figli di stranieri nati in Italia o dei migranti che qui hanno trovato un porto sicuro? Saremo in grado di garantire dei percorsi di protezione e inserimento a chi cerca pace e opportunità nell’Europa che sta nascendo? La transizione ecologica e digitale avverrà tenendo conto innanzitutto di coloro i quali per cultura, età o estrazione sociale vedranno maggiormente sconvolte la propria vita e le proprie abitudini? Può questa essere un’opportunità per lo Stato, il Terzo Settore e le imprese di stringere un’alleanza strategica, per far sì che nessuno rimanga indietro di fronte a questo passaggio epocale? Il nostro governo e le nostre istituzioni condividono che garantire a tutte e tutti un alto livello di istruzione, condizioni di vita salubri e sicure, un reddito per vivere in dignità e un’abitazione adeguata ai propri bisogni sono le sfide principali per arginare la povertà? Sulla base di questi valori e di questi quesiti noi dovremo tenere gli occhi puntati sull’azione complessiva del governo nazionale e delle istituzioni, perché tutto ciò che si può fare vada fatto, poco o molto che sia. Ma che sia fatto, affinché nessuno resti indietro.

La mia proposta è quindi di mobilitarci, fin da subito, in questa direzione, sviluppare un dibattito vero e sano al nostro interno e poi agire insieme, se in tante e tanti troveremo in questa prospettiva un orizzonte comune da inseguire.

Francesco Ciancimino

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