Questa è la seconda parte dell’articolo. Per leggere la prima: Vedere le dipendenze con gli occhi di oggi – Prima parte
ll quadro normativo
Lo strumento Legislativo che disciplina l’intera materia è il Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 (Testo Unico sulle Tossicodipendenze), modellato quasi esclusivamente su un target di eroinomani. Precedentemente, nel 1975 era stata approvata una nuova legge sugli stupefacenti (Legge Altissimo, dal nome dell’estensore di stampo liberale), che, in un’ottica più avanzata aveva identificato la modica quantità come discrimine tra consumo e spaccio e percorsi di trattamento dedicati. Sostituiva la legge del 1954 che prevedeva l’arresto dei tossicodipendenti ed il loro invio in manicomio per essere trattati come malati psichiatrici. La nuova legge prevedeva appunto l’istituzione di Centri Medici per l’assistenza sociale: CMAS (oggi SerD), istituiti però non in tutte le Regioni.
La famigerata Jervolino-Vassalli sulle droghe l. 309/1990 si inserisce in questo quadro, riportando le lancette del tempo a 35 anni prima (dispiace che ci fosse in calce la firma di un grande giurista, socialista umanitario e partigiano nella Resistenza come Giuliano Vassalli). Questa legge ha trasformato le persone con problemi di tossicodipendenza in devianti, emarginati e autori di reato, producendo degli effetti devastanti, unificando, tra l’altro, la cannabis all’eroina. L’impatto sul carcere è stato esplosivo: in vent’anni si è passati da trentamila a oltre sessantamila detenuti, di cui una buona parte tossicodipendenti, un’altra buona parte migranti accusati di clandestinità, rappresentando in maniera plastica il passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale. A tal riguardo non va sottaciuto che la quasi totalità delle comunità si erano schierate contro questa legge, ulteriormente appesantita, se non bastasse, dalla Legge sull’immigrazione Fini-Giovanardi del 2006.
Qualche dato
I dati 2018 dello studio ESPAD (CNR) riportano che, fra gli oltre 28.000 studenti considerati, più del 36% dei giovani in età 15-19 anni ha fatto uso di sostanze illegali nell’arco della vita ed il 20% negli ultimi 30 giorni, cioè 1 ragazzo su 5 è un consumatore e non più solo uno sperimentatore. È stato inoltre rilevato un incremento tra il 2001 ed il 2016 della quota che ha usato sostanze nell’ultimo mese non solo nella popolazione scolastica, ma anche nella popolazione in generale nella fascia 15-24 anni.
L’Italia risulta essere il secondo paese in Europa per consumo di cocaina dopo la Spagna, mentre Milano è la città con più consumo di cocaina nel mondo “occidentale”. Siamo il secondo Paese in Europa per consumo di eroina e il terzo Paese nell’occidente per consumo di cannabinoidi. Nel 2018 i consumatori di cocaina erano 1.500.000, 900.000 solo nell’ultimo mese dell’anno. 4/500.000 hanno utilizzano metanfetamine (il mercato propone ogni anno 200 tipologie diverse di pasticche). Questi sintetici dati solo per inquadrare il problema non come devianza e trasgressione ma come parte integrante del sistema.
Nelle interviste qualitative emerge che preoccupa molto l’idea di una vita priva di queste abitudini e piaceri, perché ai loro occhi potrebbe perdere di significati piacevoli…”vitali”. La loro routine, i loro piaceri, alcune delle relazioni su cui fanno più affidamento sono collegati alle loro abitudini anche d’uso, non gli è affatto chiaro a cosa andrebbero incontro smettendo. L’idea iniziale di cura è solo quella di ridurre le conseguenze del consumo pesante e di fermarsi lì. Questi dati ci dicono che la complessità vorrebbe che finalmente l’abitudine al consumo e/o l’abuso andassero analizzate semplicemente come tali e non prioritariamente come malattia o grave allarme sociale.
Un approccio moderno alle problematiche relative al consumo o all’abuso di sostanze ha la necessità di costruire una visione di sistema a fenomeni complessi, ad esempio contenimento dei rischi dell’abuso e del consumo problematico, importanza dei percorsi di prevenzione secondaria che anticipano la gravità, servizi di riduzione del danno nelle periferie degradate e di riduzione dei rischi nei contesti del loisir (discoteche, rave party, concerti, stadi), lavoro significativo sull’alcool di strada e complicanze (etilometro, narcotest) estrema variabilità delle offerte dei servizi.
Un discorso a parte merita l’analisi delle sostanze circolanti. ll drug checking, la pratica di analisi delle sostanze “sul campo”, un tempo nota come pill testing, si sta dimostrando un utile strumento per la riduzione dei rischi e per permettere l’aggiornamento delle conoscenze al sistema dei servizi socio sanitari. In molti Paesi europei i servizi di outreach propongono da tempo l’analisi delle sostanze nei contesti del divertimento (festival, rave party…); in Italia opinioni contrastanti e resistenze ideologiche ne hanno a lungo impedito la proposizione formale, anche se alcune realtà hanno portato avanti la pratica a livello volontaristico e contra legem.
La cannabis, tra stigma e tolleranza
La cannabis, usata per millenni nella medicina orientale, conosce una discreta diffusione in Occidente dalla seconda metà dell’Ottocento. Negli ultimi trent’anni è la pianta più studiata nel campo della medicina per le sue proprietà terapeutiche in varie specialità. Nella terapia del dolore i cannabinoidi hanno un’efficacia paragonabile a quella dei cosiddetti “oppiacei minori” e un’azione sinergica con gli oppioidi.
Alla fine degli anni ‘90 alcuni autori (Parker et al., 1998; 2002) ipotizzano un processo di “normalizzazione” della marijuana. Viene definito “normalizzazione” quel processo che porta individui stigmatizzati o devianti a essere integrati in molti aspetti della vita considerata normale, di cui assumono ritmi e routine, stili di vita e mete culturali. Le principali cause di questo processo, che ne mettono in discussione la matrice subculturale, sono: 1) la crescente disponibilità 2) l’aumento del numero di sperimentatori 3) l’incremento della quota di soggetti che mantengono un uso abituale 4) la contiguità tra consumatori e non 5) l’atteggiamento tollerante verso il consumo sensato e ricreazionale da parte di chi non consuma, 6) l’aumento del livello di adattamento culturale rispetto all’uso di droghe illegali.
Altre ricerche propongono una distinzione tra tempo attivo e tempo non attivo, dove l’uso di sostanze illegali è associato al divertimento (Young, 1971) e viene visto come un ripiego, che crea delle sub-culture. Il tempo viene letto come spazio di separazione dal mondo adulto e fare tardi la notte diviene un rito di passaggio che segna l’indipendenza degli adolescenti (Torti, 1997). Per Sarah Thornton (1996), l’uso di cannabis, assieme ai generi musicali e al vestire, è uno tra i tanti modi per ritrovarsi e distinguersi dal mondo esterno, soprattutto dal mondo degli adulti. La cannabis si può consumare ovunque, con chiunque, in qualsiasi stato emotivo: preferibilmente in casa, con amici, in situazioni di convivialità. In genere si acquista da un canale di fiducia o da amici, nell’abitazione propria o del venditore. La scelta del venditore è determinata dalla qualità migliore della merce che offre, per il rapporto qualità/prezzo.
La cannabis, vittima di un assioma (anticamera certa di esperienze più pericolose) che la scienza ha sconfessato in questi 30 anni, deve ancora oggi essere difesa. Malgrado il disvalore legato al suo consumo sia praticamente inesistente (tra la popolazione italiana), il simbolismo che ha assunto agli occhi della politica ha impresso allo stesso dibattito civile un indirizzo dissonante declinando verso forme di negazione della realtà. La realtà che viene negata è quella che riguarda la diffusione massiccia di questa sostanza pur in presenza di una norma che ne inibisce l’uso. In Italia si fa fatica, o meglio non si vuole capire che i fenomeni vanno governati. Da qui nasce un dibattito anch’esso “drogato”, che ha abbandonato la prospettiva di condotte di vita che, quando non pericolose per gli altri, dovrebbero essere accettate per virare verso isterie legate a danni irreversibili che tali condotte comporterebbero.
La “teoria del passaggio” da cannabis a eroina è uno dei mantra proibizionisti da sempre in voga,nonostante sia stato smentito dai fatti, dalla logica e oggi anche dalla ricerca scientifica. Non vi sono evidenze che lo confermino, e che anche dal punto di vista logico fa acqua da tutte le parti (è certo che tutti i consumatori di eroina sono stati prima consumatori di pane);tuttavia, questa rimane uno delle argomentazioni preferite dei proibizionisti. Essa fu proposta per la prima volta proprio in funzione anti cannabis durante l’iniziativa proibizionista promossa da Harry J. Aslinger, il potentissimo funzionario statunitense del Bureau of Prohibition che, spiazzato dalla fine del proibizionismo sull’alcol, riuscì, con una scandalosa campagna propagandistica, a convincereil Congresso degli Stati Uniti d’America ad emanare il Marijuana Tax Act, che di fatto impediva la coltivazione e proibiva l’uso della canapa in tutti gli stati Usa (1937). Nel 1939 fu il sindaco di New York, Fiorello La Guardia, a nominare una commissione di studio di esperti e scienziati per verificare la pericolosità dell’uso di cannabis e la fondatezza della teoria del passaggio. I risultati evidenziarono chiaramente l’infondatezza scientifica di tutte le tesi che avevano portato alla proibizione: dal fatto che l’uso di marijuana portasse alla follia o causasse istinti omicidi, sino alla stessa teoria del passaggio.
Un recente studio (Reddon et al, 2018) pubblicato sulla rivista scientifica Drug and Alcohol Review conferma la mancanza di associazione dell’uso di cannabis come precursore dell’uso di droghe “pesanti”. La ricerca mostra che non solo quest’associazione non è chiara, ma che l’uso quotidiano di cannabis può ridurre il rischio di uso di droghe per via iniettiva nella popolazione giovanile a rischio.
Purtroppo a distanza di decenni la teoria della, gateway drug (droga ponte) viene ancora utilizzata come deterrente, per convincere l’opinione pubblica che la legalizzazione della cannabis significhi promuovere il consumo delle droghe fra i giovani ed avviarli all’uso di sostanze più pesanti. Lo studio su Drug and Alcohol Review non solo conferma l’inconsistenza scientifica di questa teoria, ma ribalta la prospettiva, avvalorando la tesi che l’uso di cannabis sia un antagonista dell’uso di altre sostanze, effetto che pare ormai acclarato per esempio nell’uso e abuso di oppioidi come antidolorifici in Usa. E i dati che provengono dagli Stati dove si è depenalizzato o regolamentato legalmente l’uso ludico della cannabis confermano che il consumo fra gli adolescenti tende a calare. Altro mito sfatato, quello della legalizzazione che fa aumentare il consumo fra i più giovani.
Cenni epidemiologici
La cannabis è la sostanza illecita più utilizzata nel mondo, dove si stima che nel corso dell’ultimo anno l’abbiano consumata almeno 160 milioni di persone. Il consumo è maggiore nelle aree urbane rispetto a quelle rurali, risulta più elevato per i soggetti con meno di 35 anni e per i maschi, inizia verso i 15 anni ed aumenta sino ai 23 per poi diminuire. E’ più frequente tra chi fuma sigarette e risulta diffuso non solo nei luoghi del divertimento notturno, durante avvenimenti musicali o in determinati contesti giovanili, ma anche tra i lavoratori. Viene utilizzata prevalentemente per l’effetto rilassante, per il piacere che provoca e per migliorare la socialità, con differenze rispetto al genere e all’età. I consumatori di cannabis in Italia – ci dice l’ultima relazione al Parlamento – sono circa 4 milioni, il 10.3% della popolazione generale, quelli di eroina lo 0.6%. Pare lapalissiano che a parte i casi in cui il passaggio ad eroina o altre droghe più pericolose è imposto dalle strategie del mercato illegale, al consumo di cannabis non si possa di per sé attribuire la benché minima responsabilità.
Uso medico
Passando dall’analisi dell’uso ricreazionale a quello medico, si può vedere come in letteratura sono stati pubblicati diversi studi su varie patologie. L’elenco non deve sorprendere, stante l’importanza del sistema endocannabinoide. Naturalmente sono necessari ulteriori studi prima di avere risposte definitive. Troviamo ricerche cliniche su: nausea e vomito nella terapia dell’epatite C, vomito in gravidanza, vomito dopo chirurgia gastrica, anoressia nell’Alzheimer, anoressia nervosa, perdita dell’appetito nella BPCO, cefalea, cefalea a grappolo, emicrania, sclerosi laterale amiotrofica, colon irritabile, discinesia, singhiozzo intrattabile, sindrome di Tourette, disturbo da iperattività/deficit di attenzione, disordine ossessivo-compulsivo, disordine da stress post-traumatico, morbo di Isaac, morbo di Parkinson, morbo di Huntington, trauma cranico, tinnito, prurito, epilessia, sindrome di Dravet, glaucoma, asma, morbo di Alzheimer, glioblastoma multiforme, lesioni midollari, dolore neuropatico centrale, dolore neuropatico periferico, insonnia, artrite reumatoide, fibromialgia, schizofrenia, disordine bipolare, depressione, dipendenza da alcool, dipendenza da oppioidi, dipendenza da cocaina/crack.
Conclusioni
Le sostanze stupefacenti “maggiori”, al contrario della cannabis, costituiscono paradossalmente un “riparo” per i consumatori. Un rifugio illusorio, fugace, con conseguenze indesiderate, ma dal “beneficio” incontrovertibile. Anestetizzano la sofferenza fisica e mentale e, soprattutto, consentono sprazzi di piacere. Poco importa, ai loro occhi, se le conseguenze possono essere deleterie: non solo l’overdose, ma molte malattie connesse all’uso di droga, dal congelamento non percepito alla rissa.
Il lavoro di bassa soglia, dall’intervento in strada ai luoghi di loisir, dalle mense ai drop-in, dall’accesso ai luoghi per l’igiene personale e la cura del sé alle cure mediche primarie ed allo screening per le infezioni, ha impegnato molte delle risorse del pubblico e del privato sociale negli ultimi dieci anni.
Da tempo ormai gli interventi di riduzione del danno non si sono affatto mostrati in contrapposizione agli interventi riabilitativi, ma sono risultati sinergici. Un buon servizio di riduzione del danno ha maggiori probabilità, tramite la vicinanza relazionale (relazione forte/contratto debole), l’attenzione alla persona e un atteggiamento non giudicante, di stimolare richieste evolutive che necessitano di essere accolte e valorizzate nella costruzione di percorsi di graduale superamento dello stato di emarginazione. La riduzione del danno, infatti, comprende interventi, programmi e politiche finalizzati a ridurre i danni alla salute, i danni sociali ed economici associati al consumo di stupefacenti che possono affliggere individui, comunità e società (Rhodes & Hedrich, 2010).
Una modalità di intervento che offra buone probabilità di successo nel far incontrare domanda e offerta è quella rappresentata dalla Bassa Soglia, dove i servizi affiancano le persone offrendo loro alcune semplici opportunità (“banalmente”, mangiare, dormire, lavarsi e curarsi in prima battuta), ma mantenendo aperta la possibilità di fare dei progetti minimi qualora lo richiedano.
Nel decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 12/01/2017, che definisce e aggiorna i livelli essenziali di assistenza (LEA), la Riduzione del danno e dei rischi viene per la prima volta inserita tra le prestazioni che il servizio sanitario nazionale deve assicurare ai cittadini (Articolo 28, comma 1 lettera k). Una novità attesa da anni e che apre un capitolo decisivo per la tutela della salute e l’assistenza socio-sanitaria delle persone con dipendenze patologiche.
Francesco Grassi
Fonti
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LIBRO BIANCO SULLE DROGHE, I dossier di FUORILUOGO.it La guerra dei trent’anni, Giugno 2019.
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Parker H., Williams L., Aldridge J. (2002), The Normalization of ‘Sensible’ Recreational Drug Use, Further Evidence from the North West England Longitudinal Study.
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Reddon et al, pubblicato sulla rivista scientifica Drug and Alcohol Review (2018).
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Relazione al Parlamento 2018 dello studio ESPAD (CNR).
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Tompston S., Grosso L., in Adolescenti e sostanze psicoattive, Giornate di Studio, Bologna, Febbraio 2011.
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Young J., The Drugtakers (1971), The Social Meaning of Drug Use, MacGibbon and Kee.