La lotta contro il tempo in cui ci ritroviamo è molto difficile.

Siamo messi a dura prova. La difficoltà deriva essenzialmente da un fattore: non si tratta di politica, né di economia né di qualche causa sociale, ma dal fatto che la lotta è culturale. Con questo non intendo dire che la politica, con una sua ben precisa visione economica e sociale, non serva. Affatto… anzi, è la chiave, è il mezzo.

L’oggetto del problema è la cultura.

Abitiamo in un mondo -nella nostra privilegiata Europa- benestante, che ci ha abituati a vivere da signori (e nemmeno tutti, perché di povertà ce n’è anche da “noi”).

La cultura capitalistica e consumistica tipica dei Paesi ricchi ha infuso nella nostra testa e nel nostro essere un incontrollato e incosciente atteggiamento egoistico ed egocentrico. Pensiamo di non avere alcun impatto sul mondo, percepiamo la nostra esistenza isolata da tutto, fino a pensare di poterci permettere qualsiasi cosa.

Siamo convinti, nella nostra coscienza plasmata dal sistema, che non produciamo effetti sull’esterno, o anche se ne fossimo a conoscenza, lo saremmo solo parzialmente: altrimenti agiremmo tutti, in massa. Crediamo di poter fare tutto senza che ci venga presentato il conto.

Il nostro modo di vivere, in cui tutto corre, ci ha obbligati a pensare che non esista un’alternativa, e questo ha contribuito al radicarsi del maligno senso di onnipotenza che ci ha infettati. E in effetti, in un sistema come il nostro, l’alternativa ha poche possibilità di sopravvivere se sostenuta da pochi individui singolarmente. 

Per capire quanto questa lotta sia culturale e si debba scavare nel profondo delle nostre prepotenti e aggressive abitudini, vi propongo alcuni esempi. Per quanto possa sembrare che sminuiscano il tema, essi non lo sminuiscono affatto, ma anzi servono a dimostrare l’urgenza e la gravità della situazione.

Mi riferisco ai motori accesi mentre si è fermi al passaggio a livello, come alla percezione che il possesso di un mezzo inquinante privato sia una libertà; si pensi alla quantità di sprechi in termini alimentari e di acqua, all’uso del motorino invece della bici perché “si fa prima”.

Non ignoriamo fischiettando la materia che comprende l’infinita quantità di beni inutili che compriamo in continuazione, approfittando per esempio degli incentivi proposti dal mercato, primo fra tutti il Black Friday. Gli esperti hanno stimato che solo nel Regno Unito, la festa del mercato costerà alla Terra circa mezzo miliardo di kilogrammi di anidride carbonica.

Fate caso -confrontate l’oggi o il periodo antecedente il covid con il primo lockdown– all’inquinamento luminoso e acustico che tormenta le città. Hanno un impatto sull’ambiente circostante e sulla biodiversità enorme, senza che ne siamo consapevoli. In Italia, dove 8 persone su 10 non vedono le stelle, abbiamo disorientato animali notturni e gli equilibri degli ecosistemi.

Sembra che non riusciamo a vivere senza l’abuso spasmodico di luce e dei motori.

Siamo inquinatori incalliti che non si pongono nemmeno il problema, perché sembra sia stato sempre così.

Attenzione, non voglio dire che non si può più far niente. È importante però capire che il modo in cui viviamo non è compatibile con l’ambiente che ci ospita.

Secondo l’Istat, prima del covid-19, 25 milioni di persone usavano l’automobile per spostarsi, poco meno di una persona su due, e questo tristissimo dato si unisce alle sole 3 milioni di persone che usano mezzi pubblici (eccetto treni) e 900.000 individui che si spostano in treno. Drammatiche notizie. Questi numeri fanno intuire che il problema è strutturale, il che significa, indipendentemente dall’individuazione di tutti i colpevoli, che il sistema pubblico ha clamorosamente fallito.

Il dibattito delle ultime settimane sul trasporto è esattamente il riflesso di una sconfitta miserevole che è andata incrostandosi negli anni. Lo Stato deve intervenire drasticamente, con convinzione e professionalità: stiamo parlando di tutela di diritti, ricordiamocelo.

Accanto al fallimento del settore pubblico, si pone un’altra questione strettamente legata e prima menzionata: il sistema in cui viviamo, che ci obbliga a correre a vivere in un mondo nel quale la nevrosi è di moda, chi non l’ha ripudiato sarà.

Riprendiamo il ruolo dello Stato e aggiungiamo un elemento.

La povertà nel mondo. Oltre alla cultura ricca occidentale criminale vi è quella martoriata e ferita dei poveri, anch’essi inquinanti. Capite bene però che siamo di fronte a due tipi di inquinamento, benché entrambi criminali, che vanno affrontati in maniera diametralmente opposta. Infatti, la visione ecologica è necessariamente accompagnata da una visione della società, riprendendo l’introduzione.

È palese, alla luce di questa constatazione, che alla base della cultura inquinante ci sono senza ombra di dubbio le disuguaglianze. Il 90% delle morti per inquinamento avvengono in Paesi poveri o in via di sviluppo. La crescita economica in questi luoghi costa caro al mondo intero.

Alcuni riferimenti sono il mostruoso commercio di rifiuti, il sistema energetico, di riscaldamento e la carenza di servizi pubblici, che ha conseguenze disastrose sul piano sociale, ambientale e anche politico-economico. Immaginate sterminate città come Nuova Delhi, Città del Messico o San Paolo, in cui lo spaventoso brulichio ha un impatto enorme sullo stile di vita degli abitanti e in cui la qualità dell’aria è bassissima. 

Il problema che ostacola la luce in fondo al tunnel è che per ovviare a questa situazione non può che esserci una risposta globale. Le abissali diseguaglianze, a questo punto anche e soprattutto internazionali, fanno sì che gli Stati in difficoltà non abbiano risorse e dunque non siano capaci di invertire rotta.

Lo Stato per sua natura non può essere solidale con “i suoi simili”, ma la storia ha permesso la cessione di sovranità per la creazione di organizzazioni sovranazionali. Esse devono mettere in atto sin da subito un piano solidale per stabilire una condizione di parità affinché le popolazioni abbiano il diritto alla vita. Nel concreto però sappiamo tutti che gli interessi economici e il potere danno alla testa, e la strada che si sta percorrendo si allontana progressivamente dalla Cooperazione che dovrebbe attuarsi.

Il concetto di cooperazione rimanda ad alcuni valori che nell’ottica occidentale (e non solo) militaresca e dei profitti sono stati deturpati: Bene Comune è primo fra tutti, e questo perché la cooperazione c’è solo se si ha un obiettivo comune, un bene collettivo da salvaguardare. Noi no, non ce l’abbiamo. Gli esempi sono davvero innumerevoli.

Due sono quelli su cui voglio porre l’attenzione. Il primo ha occupato varie pagine di giornali durante la pandemia, ovvero la destinazione delle spese dello stato. Come approfondisce in maniera impeccabile la SIPRI, le spese militari globali raggiungono ormai decine di miliardi di dollari, e sono in aumento da due decenni. L’altro esempio che porto ha come oggetto la foresta amazzonica. Fa parte della logica della sovranità pensare che lo Stato abbia potere decisionale esclusivo sul territorio che occupa.

La consapevolezza che invece dobbiamo raggiungere sta nel sostenere che per la biodiversità, le foreste, le acque e le montagne (pensate anche vicino a noi, alle cave di marmo) non può più essere così: non è più tollerabile che beni comuni dell’umanità siano soggetti alla sola autorità dello Stato, o addirittura dei privati.

La negligenza di noi benestanti e degli Stati ricchi è un crimine contro l’umanità e contro la vita.

Sono nostri crimini. 

Devono essere il nostro tormento.

Giovanni Greco

Questo testo è un contributo per i compagni di viaggio de L’Informazione Giovane e 6000 Sardine.

Fonti