Mi trovo in Libano, e probabilmente lo sto vivendo nel suo periodo peggiore degli ultimi 30 anni. 

Si sa, il Paese sta attraversando una crisi politica ed economica senza precedenti, aggredito da continui shock che da un anno a questa parte non gli danno tregua: la rivolta dell’ottobre 2019, la crisi generata dal diffondersi del Covid a partire da febbraio e, lo scorso agosto, l’esplosione nel porto di Beirut sono solo alcuni, certamente i più eclatanti, dei drammi con cui il popolo libanese è quotidianamente chiamato a fare i conti.

Il violento deprezzamento della valuta, il drastico aumento dell’inflazione, la preoccupante carenza di beni di prima necessità e una crescente frammentazione sociale sono esacerbati da una crisi dei rifugiati siriani che si protrae da quasi un decennio. Perché in Libano l’immigrazione è una faccenda seria, per davvero.

Si stima che nel Paese vivano attualmente circa un milione e mezzo di rifugiati siriani (quelli ufficialmente registrati e censiti dall’UNHCR sono 879,529). Di questi, il 62,1% si concentra in due aree di confine in cui, con la Onlus WeWorld e nell’ambito del programma Eu Aid Volunteers, mi trovo a operare: il Governatorato Baalbek-Hermel (39,9%) e quello di Akkar (26,2%), due aree già altamente povere e vulnerabili in cui questo enorme flusso ha contribuito a destabilizzare i già̀ fragili equilibri demografici e confessionali, causando instabilità̀ economica e politica e deteriorando non soltanto lo stato delle infrastrutture e la qualità̀ dei servizi pubblici essenziali di base, ma anche le condizioni di vita generali della popolazione locale, alimentando una crescente tensione sociale. I settori che ne patiscono le conseguenze sono innumerevoli e strettamente interconnessi. Tra questi vi è quello dell’istruzione

In Libano, il sistema scolastico è fortemente privatizzato e soltanto il 30% dei bambini libanesi frequenta le scuole pubbliche. Nelle aree in questione, i tassi di abbandono scolastico sono tra i più̀ alti del Paese, principalmente a causa della povertà̀ delle famiglie che non riescono a pagare la tassa di iscrizione scolastica e le spese di trasporto da e per la scuola, e delle pessime condizioni infrastrutturali e igienico-sanitarie delle scuole pubbliche (in quest’ultimo caso, sono soprattutto le bambine a mostrare un alto livello di abbandono). Per fare fronte alle difficoltà, le famiglie sono spinte ad adottare meccanismi di difesa negativi, come il lavoro minorile e i matrimoni precoci, esponendo i bambini e le bambine a rischi di violenza e abusi. Per quanto riguarda la popolazione rifugiata siriana, in aggiunta ai motivi di abbandono citati, i bambini siriani con disabilità risiedenti in Libano dichiarano nel 44% dei casi di non frequentare a causa dell’inadeguatezza delle infrastrutture scolastiche e dell’assenza di programmi specifici, due elementi che contribuiscono nel far aumentare le percentuali di abbandono scolastico. Allo stesso tempo, però, la grande affluenza di rifugiati siriani degli ultimi anni ha accresciuto la domanda di accesso al sistema scolastico pubblico (il cui costo è notevolmente inferiore rispetto alle scuole private) creando una forte pressione sulle scuole pubbliche libanesi, che si sono ritrovate impreparate. Molte scuole pubbliche, ad oggi, hanno visto aumentare di oltre il 50% i propri iscritti rispetto all’anno scolastico 2013/2014 (cuore della crisi siriana), senza avere però le capacità infrastrutturali per poter far fronte a un così alto numero di nuovi alunni. In questo contesto, sostenere le scuole e le famiglie per consentire ai loro figli e alle loro figlie migliori condizioni di accesso all’istruzione risulta una priorità̀. 

Ed eccomi qui, a supporto di un progetto finanziato dalla Cooperazione italiana, avviato nell’autunno del 2019 e ora in fase di conclusione, che si occupa di promuovere l’istruzione e l’accessibilità delle scuole in aree particolarmente povere e vulnerabili, in cui l’istruzione, di certo, priorità non è. Nel concreto, l’intervento si è concentrato in tre scuole, due delle quali si trovano nella regione di Akkar e una nel governatorato di Baalbek-Hermel, le aree cui si accennava poco fa. Queste scuole sono state identificate dal Ministero dell’Istruzione Libanese (MEHE) come quelle in cui è maggiore la necessità tanto di interventi strutturali quanto di supporto al corpo docente e agli educatori comunitari, al fine rafforzare i servizi di protezione per le fasce più̀ vulnerabili della popolazione, ospitante e rifugiata. 

Le scuole in questione erano infatti contraddistinte, tra le altre cose, dalla quasi totale assenza di bambini/e con bisogni speciali; un’assenza dovuta, da un lato, all’inadeguatezza architettonica e strutturale delle scuole, che limitava l’accesso di coloro che presentano disabilità fisiche, e, dall’altro, alla mancanza di politiche scolastiche interne e piani educativi volti alla loro inclusione. Anche la presenza di bambini/e rifugiati/e risultava piuttosto limitata, prevalentemente a causa dei costi legati al trasporto, ma anche al fatto che nessuna delle scuole target prevedeva la possibilità per loro di frequentare percorsi educativi formali. 

Il progetto si è quindi posto come obiettivo, da un lato, la promozione dell’istruzione e l’accessibilità “materiale” delle scuole, attraverso la riabilitazione delle strutture e l’abbattimento delle barriere architettoniche; dall’altro, il potenziamento della protezione dei minori attraverso l’attuazione e la promozione di azioni di accessibilità “immateriale”, quindi di inclusione sociale e di accettazione dell’altro e del “diverso”. Attività̀ sportive e ricreative, azioni di promozione della genitorialità attiva, dell’insegnamento inclusivo e di sensibilizzazione verso la disabilità, così come campagne di sensibilizzazione per l’istruzione e la promozione dell’inclusione sociale, con cui si è avviato un percorso di aggregazione sociale dei diversi gruppi presenti all’interno delle diverse strutture scolastiche e piantato il seme per la maturazione, sul lungo termine, di nuove forme di coesione sociale all’interno delle comunità̀. 

Per raggiungere questi obiettivi, è necessario che il progetto innesti, in primo luogo, sostenibilità, la ragione che dovrebbe muovere la cooperazione allo sviluppo e gli aiuti umanitari sempre e ovunque nel mondo. Il progetto deve rendere il terreno sufficientemente fertile da permettere ai semi di fruttare, affinché il valore dell’istruzione e di ciò che essa comporta venga osservato oltre che riconosciuto. Un passaggio per nulla scontato in un momento in cui l’accesso al pane risulta gravemente compromesso e i diritti hanno assunto, per i più, il sapore dei privilegi. Il “lungo termine”, in Libano, è un concetto spogliato di qualsiasi valore e rilevanza, perché in una battaglia che si combatte nel quotidiano, e che ogni giorno deve far fronte a nuove e impreviste minacce, la sfida più dura è proprio quella di guardare lontano e impegnarsi nel mettere a frutto ciò che ora, per tantissime famiglie, costituisce un ulteriore sacrificio. 

L’istruzione è un diritto di tutti ma solo per pochi non è anche un privilegio.

Francesca Trebbi

Fonti