Nel corso degli ultimi decenni in Italia, come nel resto delle democrazie occidentali, stiamo assistendo a un profondo cambiamento nell’opinione pubblica. Questo va di pari passo con la trasformazione del panorama politico e trova una forte correlazione anche nell’ambito giornalistico e più in generale dell’informazione. Politica, informazione e opinione pubblica, con il progressivo allontanamento delle persone dalla sfera pubblica, possono apparire nettamente separati tra loro, ma, in realtà, sono strettamente interconnessi. Se la politica di partito diviene sempre più anti-politica, il che potrebbe sembrare un paradosso, allo stesso tempo il giornalismo e il mondo dell’informazione si rivelano sempre più il mondo della disinformazione e della sensazione. Gli addetti ai lavori non sono più guidati dal principio “Dont just engage, equip people -non è sufficiente coinvolgere le persone, bisogna fornire loro gli strumenti migliori per vivere-; il criterio oggi è la notiziabilità, la capacità fine a sé stessa di “vendere” un’informazione. E i populismi spopolano: il paradosso è realtà. Ma quali sono le cause di questo fenomeno tanto preoccupante? Quali le possibili soluzioni?

Il giornalismo nasce come fonte di informazione a livello locale per poi, nel corso del tempo, interessarsi sempre più alle questioni nazionali e internazionali. Questo per stare al passo con la progressiva apertura culturale e a causa della crescente volontà di non limitarsi al proprio contesto più ristretto. E, in un mercato che assume i contorni dello Stato nazionale, riuscire a fare soldi. Dunque, se da un lato le persone richiedono una quantità maggiore di informazioni, dall’altro il mondo dell’informazione risponde ampliando i propri confini. Ai giorni nostri, e principalmente per i giornali con un pubblico ampio, ciò avviene spesso a scapito della qualità dei contenuti per soddisfare la varietà richiesta. Quest’ultima è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni anche grazie allo sviluppo delle piattaforme digitali, che hanno reso l’informazione sempre più immediata e disintermediata, veloce e diretta. Di conseguenza, il tempo della lettura non è quello dell’analisi, ma del flusso, tratto distintivo della rete. Come dimostrano i dati non c’è paragone tra la lettura dei giornali cartacei e delle loro versioni digitali. Prendiamo ad esempio uno tra i più diffusi quotidiani italiani, “La Repubblica”, che conta circa “solo” 150.000 copie cartacee vendute e ben 7 milioni di accessi online al giorno. Ricapitolando. Da un punto di vista geografico: dall’informazione parziale all’informazione totale; da un punto di vista sociale: dall’informazione totale all’informazione parziale. Quello dei grandi numeri, infatti, è un giornalismo che mira ad essere sempre più onnicomprensivo, immediato, alla ricerca dell’audience, quindi superficiale, commerciale e populista. È la prospettiva che fa girare la macchina, purtroppo. Come se i giornali, in fin dei conti, fossero solo delle imprese il cui fine è il profitto e che, invece di trarre guadagno dalla vendita di bulloni, traggono profitto dalla vendita di notizie. Ma il giornalismo non può essere solo questo.

La vena espansionistica del cosiddetto “quarto potere”, che comprende tutti i mezzi di comunicazione di massa, passa per il mondo digitale che, come sappiamo, non ha confini. I giornali formano e trasformano l’opinione pubblica, che a sua volta influenza radicalmente la vita di un Paese: essi giocano un ruolo essenziale e cruciale nel compimento di una democrazia. L’equazione è semplice: società disinformata uguale democrazia falsata. Se i cittadini non riescono a ricevere informazioni di qualità, come possono essere di qualità le scelte che essi prendono nella vita di tutti i giorni? E come può la politica, basandosi su una lettura mistificata della sfera pubblica, andare incontro alle scelte migliori per una comunità che non è in grado di conoscere? E non è un problema delle piattaforme. Le notizie false sono ovunque, non invadono solo i social network. Per questo, ai giornalisti oggi spetterebbe un compito ancor più essenziale per la società contemporanea. Nel mondo delle fake news, informare, coinvolgere e fornire i mezzi alle persone per potersi costruire un pensiero su ciò che ci circonda è la sfida, un obiettivo di portata storica. Eppure sembra che molti di loro se lo siano dimenticato. Difatti non è raro imbattersi in articoli di giornale che mostrano solo un lato della medaglia, altri che presentano la realtà dei fatti solo parzialmente oppure che, ancora peggio, portano l’acqua al proprio mulino. Come ho potuto provare direttamente, in seguito a un’intervista rilasciata proprio a “La Repubblica”, questi rielaborano ed estrapolano solo parte di ciò che è stato detto, concentrandosi su ciò che fa notizia che, spesso, non corrisponde ai contenuti più significativi. E “aiutano” così a diffondere disinformazione, peggiorando radicalmente la qualità della democrazia. 

I giornalisti hanno un grande potere, in alcuni casi anche più dei politici, poiché è grazie a loro che la maggior parte delle persone entra in contatto con la realtà. Essi sono la fonte dell’opinione pubblica: se è malata la fonte, come può essere sana la democrazia? È opportuno far riemergere un giornalismo genuino, non basato sui criteri della notiziabilità e del mero profitto, che dia l’opportunità alle persone di formarsi un pensiero critico sulla base di notizie vere e complete, a fronte di un anti-giornalismo e di un’anti-politica sempre più pervasivi. È anche da un nuovo patto di lealtà alla realtà, da una nuova presa di coscienza e organizzazione del giornalismo -così come della politica partitica- che si può tornare a formare un’opinione pubblica che sia più cosciente e attrezzata per decifrare il mondo reale. E che sappia decidere come viverci. 

Davide Parodi

Fonti