“Io voglio avere il diritto di camminare in centro senza sentirmi sbagliata”: me lo dice con gli occhi lucidi Alessandra, ragazza ventenne la cui unica “colpa” è essere nata donna. Lei, come milioni di altre ragazze, non si sente sicura a camminare per strada, ha paura a tornare da sola a casa e si sente a disagio nel vestirsi “bene” per paura di essere additata con appellativi di ogni genere. Qui l’ignobile scusa del “eh ma se l’è cercata vestendosi così” risulta più che mai viscida. Lei si veste sempre in maniera composta, “candidamente” oserei dire, e fa tutt’altro che mettere in risalto le proprie forme, perché nella società odierna chi lo fa viene definita “puttana” e rischia di essere molestata. 

“Sai, ho paura non solo di uscire ma di mostrare la pelle”. Sì, perché diverse ragazze al giorno d’oggi hanno persino paura di mostrare una singola e piccola porzione del proprio corpo, dato che molte persone sostengono che sia il “vestire provocatorio” di queste ultime a provocare molestie e, talvolta, gli stupri.

“Eh ma te le cerchi andando in giro così”. Esattamente come se si condannasse una persona per essersi messa in mezzo alla traiettoria di un proiettile: non è colpa di chi ha sparato il colpo ma di chi, casualmente, passava lì mentre viveva la propria vita. Eppure, in questo caso il colpevole è chiaro: ma perché non è altrettanto ovvio nell’altra situazione?

chi violentaè colpevole

Si stima che oltre il 43% delle donne in Italia in un’età compresa fra i 14 e i 65 anni (circa 8,8 milioni) abbia subito una qualsiasi forma di molestia, mentre poco più di 1,1 milioni affermano di averle subite sul luogo di lavoro (dati ISTAT). Questi dati presentano comunque una tendenza negativa, grazie alle campagne di sensibilizzazione in materia e manifestata da movimenti globali come il “#MeToo”, NUDM e molti altri.

Nonostante ciò, il problema rimane all’ordine del giorno. L’oggettificazione della donna, vale a dire il comportamento prevalentemente maschile e maschilista che porta alla comparazione della figura femminile a mero oggetto, è una forma mentis ben radicata nella cultura conservatrice italiana. Molte persone definiscono le molestie “atteggiamenti goliardici” soprattutto se queste vengono commesse da giovani, altri sostengono che quello di trattare la donna come “cuoca, casalinga e mamma” sia il giusto modus operandi, altri ancora credono che le donne siano esclusivamente degli “oggetti del piacere” su cui sfogarsi.

Ormai è passato più di un mese dalla triste vicenda della discoteca friulana, la quale ha consentito a un gruppo di ragazzi di prenotare un tavolo col nome “centro stupri”, consentendo, come se non bastasse, l’ingresso a questi giovani vestiti tutti con una maglietta riportante la medesima scritta. I problemi di questa vicenda sono molteplici: come mai nessuno, in primis la discoteca in questione e il negozio che ha stampato le magliette, ha bloccato questa “operazione”? Quale educazione è stata impartita a quei giovani per portarli a fare un tale gesto? Perché nel 2020 dobbiamo ancora assistere a questo genere di scempio?

Una credenza è un po’ come un virus: si trasmette fin quando non vi sono delle misure adeguate che ne limitino il “contagio”. Purtroppo, questa convinzione virulenta è ben radicata nella cultura del nostro Paese, e ciò porta a una trasmissione genealogica. Quei ragazzi hanno agito in quel modo non solamente con intenzioni ironiche, ma perché credono fortemente in quei “valori” di superiorità machista.

Tali credenze non possono che essere alimentate in un sistema in cui le disuguaglianze di genere sono profondamente trasversali. In ambito economico, ad esempio, le donne, a parità contrattuale, guadagnano meno degli uomini. Cito un articolo del Corriere della Sera: “Una donna italiana guadagna in media circa 17.900 euro l’anno rispetto ai 31.600 maschili e a fronte di molte più ore lavorate, perché viene pagata proporzionalmente meno e fa molto più lavoro non retribuito di un uomo (lavori domestici, cura dei figli, ecc.)”. I dati, ricavati dal Global Gender Gap Report 2020, evidenziano una netta disparità tra i due emisferi. Questo gap salariale è altamente influenzato dal fatto che le donne occupanti posizioni “importanti” siano una minoranza, sia in ambienti istituzionali che privati. La gravità della situazione viene accentuata analizzando il numero delle lavoratrici part time in Italia: circa 4 donne su 10 sono obbligate a svolgere un lavoro a orario ridotto. Ciò dipende sia dalle esigenze “familiari”, quali ad esempio l’accudimento dei figli – pienamente in linea con l’equazione “classica” del “donna = mamma che deve occuparsi dei figli e in generale delle questioni domestiche” – che per motivazioni del datore di lavoro medio, il quale preferisce assumere a tempo pieno un soggetto di sesso maschile. Un trattamento che si è imposto in maniera ancora più netta durante la pandemia, in quanto con la riapertura dei luoghi di lavoro solo 3 donne su 10 hanno ripreso a lavorare a fronte dei 7 uomini su 10.

Il machismoè un virus

Ancora più assurdo è quel complesso di norme che non consente a una donna di decidere cosa poter fare del proprio corpo e della propria vita. Non a caso, tali disposizioni sono state e continuano a essere strenuamente difese da apparati a conformazione quasi esclusivamente maschile: si parla sia dei policy makers, provenienti da una destra estrema e conservatrice, che di enti/associazioni e gruppi di pressione, quali ad esempio la onlus ProVita o la stessa Chiesa cattolica. Rispetto a quest’ultima, si può notare un tentativo di rinnovamento da parte dell’attuale pontefice, in quanto Papa Francesco si è dimostrato essere molto progressista in campo di diritti umani, pronunciandosi anche in questioni tabù per la comunità ecclesiastica come, appunto, l’aborto.

Forse il volto peggiore di questa situazione lo si trova nella narrazione mediatica della, chiamiamola così, condizione femminile. Sì, perché il giornalismo in Italia è estremamente riduzionista in merito. Spesso, ripugnante, e basta. Si prenda questo articolo di RiminiToday: “Ubriache fradicie al party in spiaggia, due 15enni violentate dall’amichetto”. Il titolo riprende a pieno la retorica di cui ho parlato prima: si fanno passare colpevoli le ragazze e non “l’amichetto” che se ne è approfittato poiché erano in una condizione di alterazione. Il titolo giusto avrebbe dovuto essere: “Giovane violenta due minorenni in una festa in spiaggia”. In questo modo è chiaro chi sia VERAMENTE il colpevole di questa vicenda deplorevole, così come risulta chiaro quale sia il comportamento da delegittimare. Bisogna comprendere che il problema di questo continuo svilimento non risiede esclusivamente nel “popolino”, ma che è il quarto potere dello Stato, vale a dire la stampa, a farsene portavoce.

Tale diminutio consente uno sdoganamento di questi comportamenti, e porta alla loro banalizzazione e normalizzazione. Non è un caso che il numero di vicende analoghe a quella sopraccitata sia tutt’oggi esorbitante. Assistere a una qualsiasi forma di molestia è, infatti, ancora parte di una triste quotidianità, e questa condizione persisterà sin quando questi comportamenti verranno legittimati nella nostra cultura. 

Nel nostro Paese, la parità di genere è lungi dall’essere raggiunta. Pertanto non si deve smettere di lottare finché continueranno a perpetrarsi forme di discriminazione e oppressione in ogni ambito della vita sociale. Soltanto a quel punto potremo dirci veramente tutte e tutti libere e liberi.

Andrea Miniutti

Anna Claudia Petrillo

Fonti