Cosa significa parlare di scuola?
Significa parlare di niente.
Per dire qualcosa di sensato bisogna parlare con la scuola, non di scuola.
Bisogna parlare con studenti, insegnanti, genitori, fratelli, sorelle, medici e molte altre persone che la scuola, direttamente o indirettamente, la vivono, ogni giorno.
Da Bologna a Palermo, passando per Trieste, Lecce, Pisa, Cagliari, Parma, Pordenone e molte altre località.
Prima di pronunciarci sul tema della scuola abbiamo avvertito il bisogno di confrontarci, portando il dialogo interno su scala nazionale.
La complessità del tema impone la complessità nella ricerca di una presa di posizione. E la nostra posizione è questa:
Sulle ragazze e sui ragazzi non si mercanteggia.
Non possono essere carne da macello della politica.
Non stiamo parlando di scuola o di virus ma di diritto all’istruzione e diritto alla salute.
I diritti in gioco sono di grande portata perché in mancanza di uno dei due non si rinuncia a una porzione di futuro, si rinuncia al futuro.
Il tema è complesso e spostare l’apertura dal 7 all’11 gennaio, con ulteriori varianti regionali, è un pessimo segnale, un braccio di ferro che sa di presa in giro.
Giovedì o venerdì saranno resi noti i numeri relativi alla curva pandemica post-festività. Saranno numeri che racconteranno in modo impietoso la responsabilità (o irresponsabilità) del popolo italiano.
Affrontiamo il tema della scuola con equilibrio e non apriamo le scuole se non ci sono le condizioni.
È il momento del coraggio e dell’assunzione di responsabilità da parte di noi italiani e di chi ci governa.
Tutti riconoscono la difficoltà del compito di prendere decisioni in questo momento e a tutti fa schifo la didattica a distanza. Ma non sono questi i problemi.
I problemi sono quelli che il covid, a guardare amaramente il bicchiere mezzo pieno, ha semplicemente aiutato a mettere in luce, ma che già esistevano da tempo.
Perché tutti i nodi, presto o tardi, vengono al pettine. Quali sono questi nodi?
- L’edilizia scolastica: perché la scuola è luogo di relazione nelle aule, nei corridoi, nei giardini all’aperto. Ove la relazione sia negata, messa in pericolo o soffocata in spazi troppo piccoli non si può parlare di formazione. La DAD è un surrogato temporaneo da mandare giù in questi tempi eccezionali. Non certo la soluzione alla quale abituarsi.
- I trasporti: perché se per recarti a scuola devi accalcarti e salire su una littorina a gasolio e ti chiedi se te lo puoi permettere, evidentemente un problema c’è. Anche più di uno.
- La connettività internet: perché di rete unica nazionale si fa un gran parlare, prevalentemente in relazione ai dividendi generati da fusioni societarie, ma alla fine della fiera le lezioni in DAD vanno a scatti.
- Le disuguaglianze economiche: perché se oggi un genitore non può permettersi il/la baby sitter e deve rinunciare al lavoro, non lo ritroverà magicamente quando il virus sarà debellato e la DAD un ricordo.
- Le disuguaglianze territoriali: perché frequentare una scuola a Trento o a Vibo Valentia è molto diverso, nel bene e nel male. Inutile girarci attorno.
Iniziamo ad avere il coraggio di proporre 4 visioni, con 4 prospettive temporali chiare:
A 60 giorni: dotiamo il personale scolastico di mascherine Ffp2, non di finte mascherine chirurgiche senza il ferretto per il naso.
In modo che il diritto al lavoro possa andare a braccetto con quello alla salute, oltre che con quello all’istruzione.
Rendiamo noto anche un piano per lo smaltimento di queste benedette mascherine.
A 6 mesi: Assumiamo sempre più personale docente, stabilizziamo gli organici e destiniamo maggiori risorse economiche per dare dignità e riconoscimento al lavoro indispensabile degli insegnanti.
A 60 mesi: realizziamo e attuiamo un piano nazionale per l’edilizia scolastica e per riaffermare l’identità delle scuole come luoghi di relazione.
A 6000 mesi: non vi chiediamo tanto. Ma di sognare sì. In fondo, non costa nulla.