REFERENDUM SUL NUMERO DEI PARLAMENTARI
Il referendum sulla riduzione dei Parlamentari è stato voluto dal movimento 5 stelle, nell’intento di ridurre le spese della politica, senza tener conto delle gravi ripercussioni che tale riduzione avrebbe prodotto sull’ordine costituzionale attualmente disegnato dalla nostra Costituzione. Infatti, si deve porre in evidenza che certe riforme, come questa, non possono essere proposte in modo avulso dal sistema, poiché fanno parte di un ingranaggio generale, che viene bloccato, se si prescinde da un esame complessivo.
Per quanto ci riguarda il primo effetto negativo che l’approvazione del referendum produrrebbe sarebbe una diminuzione del valore “rappresentativo” del Parlamento (e, quindi, un grave colpo alla rappresentanza democratica), nonché una ferita all’importanza della funzione legislativa del Parlamento rispetto a un aumento di forza della legislazione regionale e, soprattutto del potere esecutivo. Con la conseguenza che il baricentro costituzionale si sposterebbe dal Parlamento all’esecutivo. In altri termini, quest’ultimo legificherebbe con decreti legge e il Parlamento avrebbe la funzione notarile di “registrare” questi decreti. Più o meno quello che oggi accade in Europa, dove il potere decisionale è nel Consiglio dei Ministri e il Parlamento, in pratica, prende atto di ciò che il Consiglio ha deliberato. C’è ancora da sottolineare che il peso del voto delle Regioni per la nomina del Presidente della Repubblica sarebbe maggiore di quello del Parlamento. E gli squilibri, come è facile capire, non finirebbero qui.
GOVERNABILITÀ E DEMOCRAZIA. SISTEMA MAGGIORITARIO O PROPORZIONALE
La diminuzione del numero dei parlamentari, con l’attuale legge elettorale, comporterebbe, inoltre, l’impossibilità di una rappresentanza delle forze politiche minori per numero di appartenenti. Si pone, a questo proposito, l’antico problema della scelta tra sistema elettorale proporzionale e sistema elettorale maggioritario. Il problema è stato visto nella presunzione che il maggioritario assicurerebbe una maggiore “governabilità” (essendo pochi a dover decidere), mentre il “proporzionale”, che senza dubbio assicura una maggiore “democraticità”, comporterebbe un confronto tra troppi punti di vista e contrasterebbe, quindi, con la necessità di avere delle decisioni rapide. Come agevolmente si può notare, è questa stessa impostazione del problema che “condanna” senza possibilità di appello la scelta a favore del sistema “maggioritario”. Innanzitutto la pratica seguita dopo l’introduzione, sia pur parziale, di questo ultimo sistema non ha arrecato nessun beneficio in termini di tempo. Anzi si può affermare che i tempi per l’approvazione delle leggi sono stati esattamente gli stessi. Il problema non sta, invero, nelle discussioni parlamentari, ma nell’accordo politico che si deve raggiungere. Se si pone sul tavolo un problema che non riguarda gli interessi della Collettività, o, come sovente accade, un problema che riguarda invece gli interessi di una lobby, è chiaro che una legge di questa fatta (tra l’altro palesemente incostituzionale) sarà foriera di molte discussioni in Parlamento. Se invece si propongono disegni o progetti di legge ben chiari e soprattutto molto significativi per l’interesse del popolo, è oltre modo chiaro che la discussione parlamentare potrà essere certamente molto spedita. E’ dunque nel comportamento dei parlamentari, piuttosto che nel sistema elettorale prescelto che sta l’efficienza delle procedure parlamentari. Comunque, a prescindere da queste considerazioni, la cui stessa esistenza è assolutamente disdicevole, la conclusione da trarre è solo una: la vera democrazia vuole che il sistema elettorale sia il “proporzionale”. In proposito l’art. 48, comma 2, della Costituzione, non lascia il benché minimo dubbio: “il voto è personale ed eguale, libero e segreto”. Quale ”eguaglianza” e “personalità “ di voto può ravvisarsi in un sistema maggioritario, se chi vota per una lista che raggiunge il 40 per cento ha espresso un voto di peso molto maggiore rispetto a chi ha votato per una lista che non ha raggiunto quel numero di voti? Se si esce fuori dalla logica, secondo la quale costituisce “maggioranza” il 50 per cento più uno dei voti, si creano maggioranze “fittizie” e si incide contro il sacrosanto principio del voto “personale e eguale”.
Stiamo parlando, in sostanza, del “premio di maggioranza”. Ricordiamo che nel primo dopoguerra l’On. Alfonzo Tesauro, propose un “premio di maggioranza” al partito che avesse riportato il 50 per cento dei voti più uno. La sua proposta fu definita una “legge truffa” e non fu neppure presa in considerazione. Oggi siamo arrivati all’assurdo, sempre in omaggio all’ipotetico principio della “governabilità”, che la “maggioranza dei seggi va a chi abbia raggiunto il 40 per cento dei voti. Abbiamo in pratica distrutto un cardine della democrazia e, con esso, le stessa logica del diritto. Infatti, come si è detto, la logica impone che sia “maggioranza” quella che supera la metà dei seggi posti in palio. Concederla a chi raggiunge a mala pena il 40 per cento, è cosa “illogica”, “Incostituzionale” e “fittizia”.
E le illogicità non finiscono qui. Basti pensare che, per la nomina del Presidente della Repubblica, il voto delle Regioni avrebbe un peso maggiore di quello attualmente proprio del Parlamento. Fatto assolutamente assurdo, che sottolinea ancora una volta l’indebolimento dell’unità della Repubblica.
MODIFICA DEL TITOLO QUINTO DELLA COSTITUZIONE E AUTONOMIE DIFFERENZIATE
La verità è che la riduzione del numero dei parlamentari pone il problema ben più complesso della riforma del Titolo V della Costituzione. La legge costituzionale n. 3 del 2001 ha inferto alla nostra Carta costituzionale originaria un colpo antidemocratico e antiunitario che ha prodotto una ferita difficilmente rimarginabile. Il torto maggiore sta nel fatto che questa riforma ha eliminato il concetto fondamentale di “interesse nazionale” e, con questo, anche quello di “interesse generale”. Se Rousseau potesse leggere il nostro attuale testo costituzionale, inorridirebbe. Egli che era convinto della importanza fondamentale della “volontà generale”. Questa modifica infantile e antistorica ha provocato una infinità di problemi, molti dei quali, e solo con estrema fatica, è riuscita a superare la giurisprudenza costituzionale. Nel quadro della necessità di una Unione tra paesi diversi, Unione Europea, Unione Mediterranea, o altro, come si può pensare di spezzare l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, proponendo, ad esempio che le “le grandi reti di trasporto e di navigazione siano di competenza regionale concorrente”?
Ci sarebbe molto da dire su questo punto, ma preferiamo chiudere il nostro discorso facendo cenno al più stridente punto di contrasto di questa riforma con i principi costituzionali, specie con il “principio di eguaglianza” tra le Regioni. Ci riferiamo all’art. 116, comma 3, Cost., nel quale si legge: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia concernenti le materie di cui al terzo comma dell’art. 117 e le materie indicate dal secondo comma, alle lettere l), limitatamente alla giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite a altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’art. 119”. Una norma, a dir poco, strabiliante.
Insomma, le Regioni possono diventare del tutto autonome nelle materie loro assegnate senza osservare “i principi” posti dallo Stato. Non solo, ma possono essere pienamente autonome anche in materia di competenza legislativa esclusiva dello Stato: ”istruzione scolastica”, “ambiente”, “ecosistema” e “beni culturali”. L’identità dell’Italia è, dunque, completamente spezzata, l’art. 5 Cost., che prevede l’unità e la indivisibilità della Repubblica, è interamente sconvolto e tutta l’Italia, non più considerata una Nazione, è pronta a essere “preda” di chi lo voglia. E tutto questo, a prescindere dai casi di calamità, come il recente Covid-19, nei quali ogni Regione dovrebbe agire da sola. Né può dimenticarsi, a questo proposito, che Matteo Renzi, con il suo referendum sulla “riforma costituzionale” del 2016, ha tentato di rafforzare la dipendenza dell’Italia dall’Europa, cioè dai Paesi europei economicamente più forti (vedi modifica dell’art. 70 Cost.).
Renzi a parte, la cosa più incredibile è che questo articolo sulle autonomie regionali differenziate è in via di attuazione, essendosi già firmate tra Stato (molto mal rappresentato) e le Regioni, le “intese” preliminari.
Non sfugga, infine, che nell’attuale sistema economico predatorio neoliberista affermatosi nel mondo intero, l’Italia , così spezzettata, certamente non sarebbe in grado di resistere agli assalti del mercato generale. E, forse, solo l’Italia del nord, potrebbe staccarsi dal resto della penisola, tornando a essere schiava dell’Austria, della Germania, e molto probabilmente anche della Francia.
Paolo Maddalena, Presidente emerito della Corte Costituzionale