Certo, che un parroco prenda posizioni anti abortiste, non ci può sorprendere. Che lo definisca un atto peggiore della pedofilia, ci deve far insorgere.

Che poi questo si vada a sommare ai tanti atti intimidatori nei confronti di un diritto acquisito come la 194, ormai vecchia di 42 anni – non solo da parte della Chiesa ma di molte istituzioni – è, in fin dei conti, un fatto. Quelle stesse istituzioni che hanno presenziato al congresso di Verona o semplicemente che si oppongono a un diritto che dovrebbe essere garantito, e che “grazie” a loro viene invece reso impossibile. 

La posizione che continua a delinearsi sull’aborto ormai in modo sistemico aggiunge violenza alla violenza. È l’intera comunità a rendersi responsabile; oltre alla sovrapposizione del rapporto uomo-donna, quest’ultima assurge a un’altra figura iconografica, quella della madre, che la tradizione religiosa del nostro Paese impone sin dalla più tenera età. Così, la donna finisce per subire un doppio oltraggio, individuale e collettivo.

Possiamo scendere in tutte le piazze del mondo a colpi di “il corpo è mio decido io”, ma allo stesso tempo non dobbiamo tacere né ignorare tutte le condizioni storiche quindi culturali che rendono questa libertà quasi impraticabile, nonostante la legge.

C’è un rischio che corriamo così facendo: evitare di analizzare e capire cosa sovverte le coscienze, scardina pregiudizi antichi, decostruisce invenzioni sociali dell’uomo che ci vengono narrate come scienza esatta o volontà divina.

All’insieme di tutte le violenze che pesano sulle donne e sulla loro vera affermazione di un protagonismo nella scena pubblica, manca ancora la presa di coscienza collettiva della correlazione che unisce tutti gli aspetti di potere, dallo sfruttamento economico all’oppressione sessuale, passando per la limitazione della conoscenza femminile.

Ed è invece, sull’interezza del dominio culturale presente in questo Paese, che c’è ancora molto da dire: bisognerebbe mettere insieme tutte quelle prassi e tutti quei i saperi che il femminismo ha meticolosamente esplorato e messo in pratica in questi anni. Bisognerebbe poi riconoscere i cambiamenti che ha prodotto e che oggi sono più forti nelle nuove generazioni. 

Solo in questo modo si può pensare che il cambiamento diventi reale, e che questo si riveli radicale. 

L’unico cambiamento auspicabile non può che riguardare la totalità degli apparati dello Stato: saperi, poteri, istituzioni. Dalla dimensione privata a quella pubblica.

La disobbedienza e la ribellione devono contrastare tutto ciò che legittima la violenza maschile, in tutte le forme che essa assume nel vivere quotidiano.

Anna Claudia Petrillo