La creatività, intesa come “mezzo per realizzare una rivoluzione pacifica” (Manifesto delle Sardine 2020, art. 3) non può manifestarsi attraverso le istituzioni dell’attuale potere costituito. Anzitutto perché le istituzioni dello Stato moderno sono state concepite come organi di potere, e data la natura inerte di questo (non si vuole mai cedere il potere), esse devono mantenersi stabili, e non possono ospitare forze creative che potrebbero volerle cambiare. Mi riferisco anche, e soprattutto alle istituzioni culturali, che possono diffondere forme tradizionali di espressione, ma non certo promuovere la sperimentazione artistica onestamente rivolta a osservare e accogliere l’imprevedibilità dei suoi effetti, compreso quello di cambiare l’istituzione. 

In secondo luogo, una creatività rivoluzionaria non può voler occupare il luogo del potere perché, per essere pacificamente rivoluzionaria, non può credere nel potere. Intendo sia il potere in sé, come modo di vivere, sia il potere costituito, che le tutte rivoluzioni storiche (e non pacifiche) hanno voluto rovesciare. 

Voler vivere nel potere o per il potere significa pensarlo in ogni momento e orientare ogni azione alla sua conquista o mantenimento. 

E’ una vita niente affatto libera, tutta protesa alla conquista e adeguata alle sue logiche, non certo creativa. D’altronde, credere nel potere costituito significa adeguarvisi servilmente, tacendo i pensieri e le ipotesi da esso divergenti. Il volerlo prendere, sostituendosi ai suoi occupanti senza rifondarne i fondamenti morali, si risolve in una sua riaffermazione. Questo è successo sia con la Rivoluzione Francese, in cui la borghesia si è sostituita alla nobiltà senza cambiare sostanzialmente le istituzioni dell’Ancien Régime (Alexis De Tocqueville), sia in Russia, in cui Stalin ha ripreso a esercitare il potere nella medesima forma zarista precedente la rivoluzione. L’altro possibile effetto di un rovesciamento violento del regime senza una chiara posizione morale è quello di creare un vuoto che verrà riempito da un potere superiore (come è successo in Libia). 

Rispetto a queste “volontà di negazione”, rivolte verso se stessi (adeguamento e servilismo) e verso l’apparato (rovesciamento del regime), una “rivoluzione pacifica” costituisce un radicale cambiamento di prospettiva. 

Per i motivi sopra espressi, una rivoluzione pacifica non può credere nel potere come mezzo per realizzarsi, ma nella necessità del cambiamento della realtà in conseguenza dell’espressione creativa del popolo. Vediamo come.  

Perché un’istituzione sia perfettamente democratica, dovrebbe essere trasparente all’espressione creativa e libera del popolo a cui appartiene. 

E’ questo un sogno? Forse, ma non possiamo precluderci la possibilità di immaginare una democrazia perfetta. Anche considerando i limiti oggettivi della rappresentanza. 

Certo che siamo lontani dalla Politeia greca, dalla coincidenza della polis con il luogo della decisione, certo abbiamo bisogno di una rappresentanza. I promulgatori della democrazia diretta possono ispirare la pratica democratica, ma non si può sperare di poter utilizzare in una nazione come l’Italia lo strumento referendario con la stessa frequenza che in Svizzera e scavalcare il problema della rappresentanza. 

Per non consentire al potere in sé, che vuole solo il suo perpetrarsi, di appropriarsi delle “domande sociali” attraverso interpretazioni parziali, bisogna rendere ineffettivi gli strumenti retorici di cui esso si avvale per trasformare le “domande sociali” in proclami demagogici. Per questo, dobbiamo fornire ai nostri rappresentanti una espressione collettiva creativa, cioè libera, di ciò che siamo e vogliamo, in modo che essi non possano portare in parlamento “istanze” e “interessi di categoria” confezionati da apparati intellettuali intermedi, ed espressi secondo una retorica ideologica e moralista. E’ in questa ottica che l’individuo deve poter vivere ed esprimere i valori che gli appartengono particolarmente, senza doversi omologare a una “parte”per impersonare una approssimativa e retorica “domanda sociale”.

 Parlando dei valori della società italiana del secondo dopoguerra, scriveva Pasolini nel 1975: “nei loro contesti culturali concreti, tali “valori” erano positivi, o, almeno, reali; strappati al loro contesto e fatti divenire a forza “nazionali”, essi si sono presentati come negativi, cioè retorici e repressivi”. Ciò che anche oggi dobbiamo chiedere al potere costituito è di non compromettere l’autenticità dei valori che appartengono al popolo, “traducendoli” in un linguaggio massificato, illusorio e quindi violento. Di non sottoporre le genti del mondo all’operazione che Deleuze descriveva come l’elevare a “maggiore” e “normalizzare”: “Di un pensiero si fa una dottrina, di un modo di vivere si fa una cultura, di un avvenimento si fa Storia. Si pretende così di riconoscere e ammirare, in effetti si normalizza”. E’ nella condizione opposta, di “minorità”, per stare a Deleuze, che è necessario mantenersi per “sprigionare dei divenire contro la Storia”, restando spogli dell’eccesso della convinzione di essere parte di una cultura “nazionale” (Pasolini). Sempre Deleuze: “Se noi siamo l’idea allora possiamo ballare il ballo di San Vito e siamo in grazia” (mio il corsivo).

Non c’è altro modo di essere l’idea che non impiegando tutte le proprie forze vitali nell’esprimerla, nel correggerla, nel cancellarla, nel riformularla. 

Un nuovo Spazio Pubblico dovrebbe essere la scena di questo lavorio condotto collettivamente, attraverso i linguaggi propri, tradizionali e sperimentali. Lavorio fatto di produzione delle proprie immagini interiori attraverso i mezzi espressivi che possediamo. La parola certamente, ma anche diversi media, musicali e corporei, che conosciamo per natura, per tradizione o per passione. E costruire in questo modo ciò che lo Stato moderno ancora non conosce, cioè una onesta e inclusiva politica culturale.

Questo scenario non è, invero, puramente positivo. C’è qualcosa di attualmente esistente che soccombe, ma non perché negato in senso forte (necare, uccidere…), semplicemente perché “lasciato morire”. Si tratta di quella “Volontà obiettiva che trascende l’individuo particolare”, su cui si basa la religiosità fascista (Enciclopedia Treccani, voce “Fascismo”). La creatività che accetti le trasformazioni che le sue espressioni operano nel mondo (per se stesse o per l’immagine che restituiscono e che obbligherebbe i nostri rappresentanti a rimanervi aderenti) non lascia margine ad alcun adeguamento a volontà paternalisticamente e autoritariamente imposte. 

Essa è espressione incontrovertibile dell’individualità in una dimensione collettiva, è realizzazione della felicità in vita. 

Una vita è felice nell’espressione libera di sé, una società felice è presente a sé per le immagini che ognuno restituisce liberamente. La continuità dell’espressione creativa, libera e collettiva non può che essere destino di felicità.

Carmelo Leotta

Fonti

  • Deleuze G. (1978), Un manifesto di meno, di Bene-Deleuze, Milano, Feltrinelli.
  • Enciclopedia Teccani, voce Fascismo.
  • Pasolini P. P. (1975), Scritti corsari, Milano, Garzanti.