La Costituzione italiana del 1948 limitò a ristrettissimi casi l’uso della pena di morte, e nel 2007 essa è stata definitivamente abolita. Il codice Zanardelli l’aveva vietata nel 1889 nel Regno d’Italia, e ancor prima era stata esclusa dai codici in Toscana. Fu il fascismo nel 1926 a reintrodurla per determinati reati.

Ad oggi, la condanna a morte è consentita in diversi Stati.

Come si legge a pagina 6 del “Rapporto sulla pena di morte nel 2019” di Amnesty International, essa è prevista negli Stati Uniti (anche se non ovunque), oltre che in nazioni sia mediorientali che dell’Asia orientale. 

Non si pensi che gli Stati che la prevedono in via ufficiale siano molti: tutte le esecuzioni si concentrano in soli 20 Paesi del mondo. È difficile stabilire il numero reale di esecuzioni, dal momento che in alcuni di questi, come in Cina, che i dati siano coperti dal segreto di Stato. 

Prestando ancora attenzione ai dati forniti da Amnesty, sono 142 gli Stati abolizionisti al 31 dicembre 2019, e per quanto dal 2016 si stia verificando una costante discesa delle esecuzioni, le condanne annuali registrate -il grafico mostra i dati dal 2010 in poi- in tutto il mondo si aggirano intorno al migliaio.

È circolato un post su Facebook qualche tempo fa in cui si parlava del caso di Lisa Montgomery, condannata a morte il 13 gennaio 2021 attraverso iniezione letale in Indiana (USA), nonostante il suo avvocato avesse insistito sulla sua condizione di mentally ill. In quel post, la vittima è stata oggetto di una discussione che da sempre interroga il diritto penale. 

Da una parte, si giustificava la pena di morte come garanzia di sicurezza, dall’altro si difendeva Montgomery in quanto affetta da problemi psichiatrici. Spesse volte, questo tipico confronto viene sviluppato sulla base di valori morali. Sono convinto però che rimanere sul piano valoriale non conduca a una vera risoluzione, e che pertanto si debba basare la propria tesi su altri piani, quali studi scientifici, sociologici, filosofici o del diritto.

Per esempio, è stato controllato che la pena di morte non costituisce un deterrente per la criminalità.

A dimostrazione di ciò, è a disposizione uno studio interessante, portato avanti dall’FBI nel 2015 (allora, in 18 Stati su 50 era prevista la pena di morte). Questo ha dimostrato che il tasso di omicidi nei Paesi abolizionisti è più basso rispetto a quello degli Stati mantenitori, sfatando il mito di una dipendenza tra le due variabili. 

A sostegno di quest’analisi riporto un’affermazione di non poca rilevanza scritta nell’introduzione di un documento redatto da Antigone, nel quale si ribadisce che “le misure alternative (non solo alla pena di morte ma in generale alla pena carceraria) […] hanno un ben più significativo impatto nella lotta alla recidiva e negli obiettivi di recupero sociale dei condannati.” A metà 2018, Susanna Marietti (coordinatrice di Antigone) aveva scritto sul Fatto Quotidiano un articolo con molte informazioni a proposito, il cui dato più significativo, riferito all’Italia, è il seguente: “dei 57.608 detenuti al 31 dicembre scorso, solo 22.253, meno del 37%, non avevano alle spalle precedenti carcerazioni”.

Con un tasso di recidiva così alto, è sotto gli occhi di tutti che la logica dietro i sistemi carcerari, dietro tutte le pene inumane fine a se stesse e alla pena di morte in particolare, è fallimentare, e deve proiettarsi verso quelle misure alternative tanto temute. Certamente si potrebbe obiettare che la pena di morte “risolve” immediatamente il dilemma, ma ricordiamoci che, come dirò più avanti, il nostro obiettivo deve essere la reintegrazione, non la vendetta.

Oltre ai dati statistici, bisogna fare presente che a livello internazionale sono molte le operazioni adottate con l’obiettivo di scoraggiare pene inumane.

Si pensi per esempio all’articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, nel quale, pur non essendo espressamente nominata la pena di morte, si fa riferimento al divieto di sottoposizione a punizioni crudeli, inumane o degradanti. Anche diciotto anni più tardi è stato fatto il tentativo di limitare l’opzione di pene capitali, attraverso il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (art. 6 c.2, 4-6). 

Ha catturato maggiormente la mia attenzione il sesto comma dell’articolo 6, il quale esplicita che la limitazione del ricorso a pene capitali non deve essere un motivo per non percorrere la strada che porta alla loro abolizione completa. 

In tempi molto più recenti, l’11 gennaio di quest’anno, è stata approvata dall’ONU una risoluzione che ribadisce i suoi valori fondanti, e benché affermi al primo punto “il diritto sovrano di ogni Stato a sviluppare un proprio sistema legale”, l’organizzazione rinnova il suo impegno attivo e non di spettatore a riguardo. 

Nessuno tocchi Caino, associazione che si batte per l’abolizione della pena di morte, fa vedere in modo molto chiaro – con un uso accurato di mappe e grafici – l’andamento delle politiche abolizioniste nel mondo. Il grafico rende visibile l’allargamento della forbice in senso positivo tra i Paesi abolizionisti e quelli mantenitori, che dal 2000 si conferma ogni anno. 

La stessa organizzazione fa pressione anche sulla promozione indiretta della pena di morte, tema altrettanto importante che rischia talvolta di essere trascurato. Questo è successo anche nel nostro Paese, quando il ministro Di Maio ha rinnovato l’impegno italiano a sostegno delle operazioni antidroga in Iran, dove alcuni reati sono appunto puniti con la pena di morte.

Indipendentemente dai provvedimenti che ciascuno Stato o comunità politica può adottare, richiederebbe un articolo a sé ragionare sul ruolo del potere pubblico in relazione alla vita dei cittadini. Se si guarda allo Stato come contratto sociale, è quasi assurdo pensare che la legge preveda punizioni tanto dure da levare la vita.

Cos’è dunque lo Stato se non la garanzia della vita? 

Senza sfociare in altri macro-temi come quello dell’eutanasia, è bene capire cosa significa garantire la vita. Così come la Pace, anche la Vita per essere un diritto ha bisogno di uno Stato presente, vicino ai cittadini, in questo caso ai condannati. È una questione di scopo. Scopo che viene spesso interpretato come una vendetta. 

Sostengo invece che l’obiettivo debba essere la concessione degli strumenti necessari al condannato per ricostruirsi una vita dignitosa e serena. Questo è il diritto alla vita. Usare la pena di morte come “lezione per i prossimi” è un mezzo fallimentare, e gli studi lo dimostrano. 

Per di più, l’uso della pena come strumento di vendetta mostra il lato più oscuro del potere, che ne approfitta con la volontà di raggiungere la pace sotto forma di controllo sociale, attraverso l’individuazione e l’eliminazione di un capro espiatorio. Ci sono molte storie esemplari. Mi viene in mente quella raccontata nel film In the Name of the Father di Jim Sheridan. 

Pur trattandosi di un ergastolo -che a mio avviso rientra a pieno nella stessa categoria della pena di morte-, nel film si vede come lo Stato abbia nascosto dolosamente le prove che dimostrassero l’innocenza degli accusati, pur di far vedere ai cittadini che il male era stato sconfitto e che potevano pertanto vivere in tranquillità. Tutto per ragioni di consenso. Tutto senza aver davvero risolto alcun problema. 

Nel caso della pena di morte, sappiamo tutti che l’esecuzione della pena capitale elimina il criminale ma non la criminalità.

Giovanni Greco

Fonti