Cara Giulia,

rispondo alla tua lettera tre settimane dopo il ritorno degli alunni in classe.

Io ho trentun anni, sono docente precario in un istituto tecnico e seguo con apprensione gli sviluppi della didattica. Leggerti mi ha fatto piacere perché nelle tue parole ho scorto molta più consapevolezza di quanta ne avessi io alla tua età. A me è servita l’università per capire la fondamentale importanza della scuola. Tu ci sei arrivata prima e questo mi dà speranza.

Concordo con te sui problemi generali che rilevi. La didattica a distanza doveva essere una misura temporanea nell’attesa della riorganizzazione scolastica, invece si è protratta fino a gennaio, complice la seconda ondata del Coronavirus. I trasporti non sono stati sufficientemente potenziati, così come non lo è stato il personale degli istituti. La possibilità di introdurre doppi turni in presenza s’è confermata un’utopia. Costa troppo? È troppo difficile da organizzare? Chissà.

Eppure, più la DAD si è prolungata, più ha mostrato i suoi limiti.

Relazionali, innanzitutto. Un buon insegnamento non può fare a meno della presenza perché senza di essa si perde tutta la parte dei messaggi non verbali. Gli occhi alzati al cielo, i sospiri, le fronti corrucciate, ma anche le espressioni di meraviglia, il furore di chi si è appassionato e vuole dire la propria. In classe il docente può avere un feedback diretto così da offrire chiarimenti o nuovi esempi più coinvolgenti. Al contrario, di fronte a uno schermo pieno di icone mute le lezioni diventano meramente frontali e oltremodo noiose.

E che dire dell’efficienza? Abbiamo dovuto inventare la DAD nel giro di pochi mesi, spesso senza i mezzi adeguati e senza avere consapevolezza dei diversi contesti di vita degli allievi. Come se non bastasse, una recente inchiesta di Milena Gabanelli ha mostrato i consumi occulti delle videoconferenze in streaming, evidenziando come l’aumento massiccio di queste pratiche ne abbia annullato tutti i benefici a livello ecologico. 

Più che una risorsa, la DAD attuale mi è sembrata un male necessario per impedire che una generazione perdesse due anni scolastici – anche se non so quanta conoscenza sia stata trasmessa in questo periodo. Didatticamente parlando, essa ha “giovato” solo agli studenti più bravi, lasciando indietro tutti gli altri. Ha ampliato cioè il divario socioculturale già esistente, neanche fosse uno strumento di selezione darwiniana.

Quindi concordo con te, Giulia: è molto meglio venire a scuola che seguire le lezioni da dietro un computer. La mia prospettiva però mi porta a sollevare dei “ma”.

Lo scorso novembre un’inchiesta de Il Tempo mostrava come l’aumento dei contagi alla riapertura delle scuole avesse toccato il 1073%. Tutta colpa degli autobus troppo pieni? Può darsi, ma dobbiamo tenere conto che le aule non sono immense e che il freddo invernale porta ad aerarle di meno. Stipare quindici persone anziché venticinque non offre tutta questa garanzia di sicurezza. Il che fa ancora più orrore se pensiamo a tutti i soldi spesi in sanificazione e dpi.

La verità è che la prassi supera di gran lunga le norme e gli scenari simulati.

Dici che i giovani hanno fatto la loro parte per contenere i rischi, ma io non ne sono affatto persuaso. La mattina alla prima ora assistiamo ovunque a piccoli assembramenti. Idem ai distributori automatici. Gli studenti non mantengono le distanze, si passano oggetti, si abbassano la mascherina nonostante i richiami. Servirebbe un vigile in ogni classe per far rispettare le regole. 

“Non bastate voi docenti?”, potresti chiedermi. No, non bastiamo.

Uno degli aspetti peggiori che ho scoperto lavorando in ambito scolastico è la gabbia di leggi e consuetudini che tolgono autorevolezza all’insegnante. I genitori, per esempio, sono diventati i “sindacalisti” dei propri figli. Spesso incapaci di fornire un’adeguata educazione, questi adulti pretendono che non si sia troppo severi con i loro ragazzi, che li si comprenda, che la colpa sia sempre degli altri. A volte persino le insufficienze divengono oggetto di contestazione. Sanzionare un alunno oggi significa accollarsi il rischio di incorrere in contenziosi interminabili con le famiglie.

Risultato? Non si riesce a instillare un po’ di rigore nemmeno in un contesto emergenziale come quello attuale. E lo dico da persona che crede nell’autorevolezza, non nell’autoritarismo. Oggi i provvedimenti disciplinari partono solo in casi gravi o gravissimi. Nessuno vuole beghe legali, le dirigenze in primis, poiché ne andrebbe dell’immagine dell’istituto. D’altronde anche le scuole vengono gestite al pari delle aziende attraverso criteri quantitativi (numero di iscrizioni, medie dei voti, risultati delle prove INVALSI). La responsabilità è scaricata quasi tutta da un lato. Nel frattempo le classi vengono messe in quarantena, a volte in tempo, a volte in ritardo per colpa di un tracciamento e di una prevenzione non sempre efficaci.

Ma andiamo oltre. 

Nella tua lettera, cara Giulia, esponi altri due argomenti che vorrei approfondire. Il primo è che la concessione della didattica in presenza agli studenti più piccoli è assimilabile a un’opera di baby-sitting. Il secondo è che, nonostante le scuole chiuse, la gente è stata libera di riversarsi per le vie delle città. 

Ti chiedo: queste verità possono giustificare la riapertura generalizzata delle scuole?

Secondo me no, perché l’obiettivo è quello di tenere la curva epidemiologica sotto controllo. Il fatto che si stia sbagliando in certi contesti (carenza e inaccessibilità del servizio di baby-sitting, movide incontrollate, ecc.) non può essere usato come argomento a favore del ritorno in presenza. Non si può dire: “Se lo fanno loro, perché non possiamo farlo anche noi?”. Se lo faceste anche voi, si aggiungerebbero ulteriori fonti di contagio a quelle che hanno portato l’Italia tra l’arancione e il rosso. Tra qualche giorno vedremo se le mie preoccupazioni sono troppo pessimistiche. Mi auguro di sì.

Detto questo, Giulia, mi resta un’ultima curiosità.

Le nostre generazioni non sono poi così lontane, ma hanno visto due mondi abbastanza diversi e, pertanto, hanno due orizzonti d’interpretazione diversi. Concordo sul fatto che ci sia bisogno di investire sul futuro e sull’importanza della scuola. Sia io che te sappiamo che l’Italia sta arrancando su entrambi i fronti. Stando dall’altro lato della cattedra, però, ho capito che la situazione è anche peggio di come immaginavo.

Oggi sbandieriamo una pedagogia per competenze che si riempie di belle parole ma che, nei fatti, persegue soltanto abilità funzionali al mondo del lavoro, quasi che la scuola fosse l’anticamera delle aziende (per poi scoprire che, in azienda, il mestiere bisogna impararlo da zero). L’evoluzione frenetica del mercato e della tecnologia, in realtà, non permette l’acquisizione efficace di queste abilità. Non c’è il tempo materiale. Nel mentre lasciamo indietro competenze fondamentali per il cittadino come l’intelligenza emotiva, l’educazione etica-digitale e il pensiero critico. Siamo al paradosso.

In questo modo la scuola si è ridotta a diplomificio. Tanti miei studenti hanno sofferto gli anni trascorsi alle superiori, vuoi per aver sbagliato indirizzo, vuoi perché non trovavano il senso in quel che facevano. Io stesso avevo fatto la scelta sbagliata e riducevo la scuola al conseguimento prima di una buona pagella, poi di un pezzo di carta che mi permettesse di trovare lavoro. Pura formalità.

In quanti vorrebbero tornare a scuola per i nobili intenti che hai tu, Giulia?

È un pregiudizio pensare che lo studente medio voglia ritornare soprattutto per rincontrare eventuali amici e/o partner? 

In quel caso, quale esercizio democratico si starebbe compiendo?

Sarebbe un ritorno che valorizzerebbe il ruolo della scuola, o solo una fuga dalla solitudine?

Col tempo mi sono reso conto che il valore profondo della scuola viene non solo percepito, ma addirittura compreso, sempre meno e la colpa non è vostra. È colpa dei genitori “sindacalisti”, dei docenti che scelgono il mestiere come soluzione di ripiego, di una politica disastrosa, ma pure di una società in cui personaggi come Elon Musk possono sostenere con forza che l’università non serve, perché tutto si può trovare online. Altri imprenditori, ben più controversi, quasi denigrano la scuola perché hanno fatto fortuna attraverso il marketing digitale.

Dato un contesto così complesso e multi-sfaccettato io non riesco ad appoggiare l’idea di una riapertura totale. Sono portato a privilegiare il principio cautelativo del contenimento dell’epidemia, almeno finché la popolazione più a rischio non sarà vaccinata.

Concludo dicendo che ammiro il tuo fervore, Giulia, così come quello di Anita, ma ingoio il boccone amarissimo della didattica a distanza nella speranza che ci insegni qualcosa per il futuro. E ti prego di non prendere la mia prospettiva come la critica di un giovane retrogrado. Ho aggiunto complessità al problema affinché le frecce del tuo arco possano essere ancora più potenti.

Giuseppe Turchi

Fonti

  • N. Chomsky, Dis-educazione. Perché la scuola ha bisogno di pensiero critico, Piemme, 2019.
  • E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina Editore, 2001.
  • E. Morin, Insegnare a vivere, Raffaello Cortina editore, 2015.
  • D. Goleman, P. Senge, A scuola di futuro. Per un’educazione davvero moderna, BUR, 2017.
  • M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, 2014.