La rabbia sociale si annida nella frustrazione, nell’impotenza, nella difficoltà di mettere il pane in tavola per le tue figlie e i tuoi figli. 

La rabbia sociale prende il sopravvento quando uno Stato dimostra la sua fragilità con una gestione che appare più “punitiva”, che risolutiva. La rabbia cresce e si manifesta infine quando uno Stato continua a chiedere sacrifici al suo Popolo senza garantirgli soluzioni certe.

Per una vita dignitosa c’è bisogno di liquidità, questo è un fatto. Ed è quello che le piazze ci stanno dicendo: “voi ci chiudete, voi ci pagate”.

Il rischio però di non saper e voler analizzare la situazione attuale delle rivolte in Italia per quello che è realmente, è il rischio, tipico ormai, di lasciare tantissimo spazio all’antipolitica. 

Perché una classe dirigente seria, oggi, dovrebbe dire – e dirlo con forza – che quello che sta succedendo ha delle responsabilità. E sono le loro. E che quello che stiamo vivendo non è casuale: stiamo raccogliendo i frutti delle scelte politiche compiute negli ultimi decenni. 

Dovrebbe ammetterlo, quella stessa classe dirigente che, per troppo tempo, ha gestito problematiche strutturali con concessioni una tantum, che ha chiuso gli occhi davanti al fatto che l’occupazione non cresceva “semplicemente” perché non si è mai andati nella direzione del creare lavoro e che il poco lavoro che ha saputo generare è stato sempre più a bassa qualità, sia per mansioni che per diritti e retribuzioni. Finendo così per registrare il record di giovani Neet (che non lavorano e non studiano) e probabilmente anche di lavoratori in nero senza tutele.  

Problemi preesistenti, che chi aveva gli strumenti e la possibilità di incidere ha ignorato, volutamente.

Oggi non ha – e non può avere più senso – fare una guerra tra categorie. E’ sempre più urgente ripensare tutto in maniera complessiva: diritti dei lavoratori, diritto alla salute, all’istruzione, alla mobilità, alla casa non possono che andare di pari passo. 

Non ha senso parlare di green new deal e sostenibilità senza dare risposte su come si intende rilanciare il trasporto pubblico locale e la rete ferroviaria regionale, anche e soprattutto alla luce dell’emergenza covid. Non ha senso parlare di diritto all’istruzione e della rivoluzione digitale – anche nell’esigenza di una DAD di qualità – se non si pensa a un piano di assunzioni di giovani che hanno certamente più competenze informatiche. Ancora, non ha senso parlare di diritto alla casa se non si fa un piano di edilizia pubblica, o di diritti dei lavoratori se non si parla di salario minimo orario e di riduzione dell’orario di lavoro, un’utopia diventata pura necessità.

Non possiamo più permetterci quindi un dibattito pubblico incentrato sulla personalizzazione delle leadership e orientato, unicamente, allo scontro tra “nomi” anziché sui temi, un’idea di Paese e una visione di società chiara. Perché questo, oltre a rendere la politica tristemente autoreferenziale, segna la distanza tra i bisogni reali delle persone e chi rappresenta il potere, semina sfiducia anche tra chi la politica la guarda con interesse e porta sempre di più le persone ad allontanarsi dalle istituzioni che dovrebbero rappresentarle, con i loro bisogni e i loro desideri.  

Non possiamo più favorire quella visione dell’economia come scienza esatta legata all’idea dell’“homo economicus”, razionale e scevro dalle relazioni sociali. A quella narrazione, insomma, a cui non si è certamente sottratto il centro sinistra negli ultimi decenni, mostrando così la sua fiera subalternità a politiche di destra. E non solo, contribuendo a semplificare sempre di più il dibattito intorno alla caccia allo spreco, allo spread, al deficit e ai bilanci e senza provare mai a spiegare – ad esempio – che il deficit di spesa può essere una soluzione possibile e necessaria. E che nello spread si celano tutti i ritardi del nostro sistema sociale ed economico. 

Non possiamo più – e non dobbiamo più – accettare che le decisioni di questo Paese continuino ad essere svincolate da una visione del futuro, del mondo e del complesso tessuto sociale del nostro Paese. 

Ma c’è di buono che proprio in momenti di difficoltà come questo si può e si deve scegliere da che parte stare. La pandemia ci consegna la possibilità di lavorare sulla difesa del bene pubblico. Quello che stiamo vivendo è un tempo molto politico, è il tempo di provare a leggere lo spazio in cui viviamo e di mettere ordine, di svincolare la categoria di “senso” dall’individualismo e riportarla alla dimensione collettiva. È tempo di usare il potere per incidere sul futuro, di farci finalmente carico di un sentimento vecchio ma profondamente attuale come la giustizia sociale: è tempo di tornare a mettere al centro di tutto le persone. E per farlo, abbiamo bisogno di ripensare tutto, e farlo con il coraggio della radicalità. 

Bisogna iniziare ora. Da questa semplice ma indispensabile parola: redistribuzione. In antitesi a chi preferisce soluzioni “flat” in una società che di pari non ha niente, una misura come il reddito universale slegato dalla logica del lavoro costituirebbe una misura di emancipazione, perché dove c’è reddito, non può esserci ricatto. Nella stessa prospettiva, quella di una maggiore giustizia sociale, devono essere interpretate il salario minimo orario e la riduzione dell’orario di lavoro, e così la tassazione sui capitali superiori ai 5 milioni di euro, e andando più nello specifico la tassazione alle grandi aziende del web 2.0, che hanno visto i loro profitti aumentare in maniera vertiginosa in un periodo di drammatica crisi economica e sociale. Redistribuzione, la parola del presente. Di un presente più politico. 

Abbiamo bisogno di più politica.

Anna Claudia Petrillo