Il 9 marzo sarà ormai passato un anno da quando le nostre vite sono cambiate senza neanche che ce ne rendessimo troppo conto. La pandemia ci ha costretto a cambiare stile di vita, priorità e modo di lavorare; un cambiamento così drastico che ha, di fatto, tranciato una linea che dividerà un’era: quella del pre-covid e quella del post-covid. Avvenimenti del genere segnano un’intera generazione: la Gen X ricorda il mondo pre e post 11 settembre, i boomer ricordano bene il mondo pre e post caduta del muro di Berlino e ora tocca ai Millenial e alla Gen Z fare i conti con uno spartiacque che modificherà i loro destini e il futuro dell’umanità così come la conoscevamo.

Probabilmente non sapremo mai cos’è successo realmente a Wuhan, quando, dove e come il virus ha iniziato a renderci vulnerabili, privandoci di una sensazione che davamo per scontata: la libertà. Le problematiche che abbiamo affrontato sono state tante; la gestione della pandemia non sempre efficiente ha fatto scatenare, in buona parte dell’opinione pubblica, sentimenti di rabbia e che richiamavano al rigore, anche utilizzando metodi poco ortodossi. Alcuni media, e molti commentatori seriali dei social, già a fine 2020 si prodigavano a elargire complimenti a destra e a manca alla Cina ed al suo metodo per combattere il virus.

“Guardate il modello cinese, funziona. Quello sì che è un paese serio”, su per giù era questo il tipo di frase più gettonato. In pochissimo tempo abbiamo dimenticato le censure, la dittatura e il grigiore del regime di Pechino e abbiamo deciso che quello doveva essere il nostro modello (dimenticando anche che la Cina, avendo già affrontato un’epidemia simile, aveva già pronti sistemi centralizzati per affrontare l’emergenza). Paradossale. Un giorno, spero a breve, sarà chiara a tutti una cosa: se c’è una lezione che abbiamo recepito dall’emergenza Covid è una: NON bisogna fare come la Cina. Se si dovesse trovare un responsabile del prodigarsi della crisi pandemica trovare un nome sarebbe facile: Xi Jinping

È ormai dimostrato che il regime cinese, così come per l’epidemia di SARS, ha comunicato troppo tardi al mondo cosa stava realmente accadendo 

Ricordiamo tutti la storia di Li Wenliang, l’oculista che per primo, nel dicembre 2019, cercò di mettere in guardia le autorità locali, venendo però prima inascoltato e poi arrestato per poi morire proprio a causa del Covid. La Cina ha avvertito il mondo solo il 12 gennaio, ma solo per un errore, fu infatti uno scienziato di Shangai, Zhang Yongzhen, a pubblicare il genoma del virus sul sito virological.org; in seguito a ciò lo scienziato fu punito, vedendosi chiudere il proprio laboratorio di ricerca per aver “interferito” con i tempi della politica del presidente cinese, da subito restia a creare allarme intorno al nuovo coronavirus.

Solo il 20 gennaio le autorità cinesi avvertirono la comunità internazionale del pericolo della trasmissibilità del virus da uomo a uomo e solo il 30 gennaio l’OMS dichiarò quella del coronavirus un’emergenza globale. Mesi persi in cui la democratura cinese ha lasciato, deliberatamente, circolare il virus per il mondo. Ricerche degli scienziati della statale di Milano parlano del virus in Italia presente già ad ottobre mentre uno studio dell’Istituto tumori di Milano ha dimostrato di aver trovato anticorpi del Covid in pazienti già a settembre. Tra gli effetti devastanti che la pandemia ha provocato, la crisi economica è sicuramente quella che più notiamo e le cui conseguenze si faranno sentire come, se non peggio, quelle della crisi del 2008.

C’è però un dato interessante: l’effetto Covid ha aiutato proprio la Cina che dal 2028 supererà anche gli Stati Uniti come potenza globale 

Il report del Centre for Economics and Business Research (Cebr) mostra come, durante la pandemia, il Pil cinese sia aumentato del 2% mentre quello statunitense sia calato del 5%. La Cina, quindi, con 5 anni di anticipo rispetto le previsioni, diventerà la prima potenza economica globale. La mancata trasparenza di Pechino, però, contribuisce ad alimentare le teorie del complotto, dopotutto non si può biasimare chi guarda con diffidenza una nazione il cui leader è lui stesso un enigma.

Come hanno affermato lo scrittore Yan Linke e lo storico Jeffrey Wasserstrom in un articolo apparso su The Atlantic lo scorso 30 gennaio, non esistono biografie del leader cinese affidabili e documentate in inglese, mentre quelle in cinese tendono all’agiografia. Di conseguenza, chi ha a che fare con la Cina – praticamente tutti, data la globalizzazione – non conosce esattamente, ancora adesso, chi ha di fronte. In aggiunta, è difficile trovare qualcuno che abbia realmente familiarità con lui o che sia disponibile a parlarne; la censura è un mostro troppo pericoloso da affrontare per molti giornalisti cinesi. 

Lo sa bene Cui Yongyuan, uno tra i blogger più famosi dell’intera Cina, che ha visto sparire i propri post da ogni social controllato da Pechino per “frode e diffusione di notizie false”, a riprova che la Cyberspace Administration of China, un’agenzia creata nel 2014, proprio dal presidente cinese Xi Jinping, con l’obiettivo di centralizzare tutte le attività di censura e propaganda online, lavora costantemente per portare a termine il Golden Shield Project, comunemente chiamato Great Firewall, in maniera ironica dai media occidentali. L’inchiesta del New York Times del dicembre 2020, portata avanti in collaborazione con ProPublica e grazie al lavoro di alcuni hacker, ha dimostrato come la Cina abbia costantemente censurato qualsiasi notizia legata al Covid, comprese quelle che ritraevano problematiche interne nella gestione della pandemia.

Xi Jinping è noto per censurare i social media occidentali, non ultimo Clubhouse, una piattaforma in cui si può dar luogo a dibattiti e che stava spopolando in Cina. Cosa che non ha fatto piacere al regime che subito ha spento qualsiasi possibilità di far emergere voci fuori dal coro.

Ecco, quando pensiamo alla Cina come modello da seguire, pensiamo a tutto quello la Cina è

Siamo disposti a privarci delle libertà personali per sconfiggere la pandemia? Siamo disposti a vivere in un sistema che non tollera voci di dissenso? Siamo disposti a vivere sotto un regime che reprime con la violenza qualsiasi manifestazione pacifica? Io credo di no. Per questo motivo quando giudichiamo e ci arrabbiamo sulla gestione della pandemia da parte della politica italiana facciamo bene a sottolineare gli errori e a far notare che qualche provvedimento è sbagliato, che quella cosa andrebbe fatta meglio e che quell’altra invece andava fatta prima. Ricordiamoci però che se possiamo farlo è perché viviamo in Europa e che se chiediamo il modello cinese dobbiamo prenderci entrambi i lati della medaglia, quello buono e quello cattivo. 

Siamo disposti?

Claudio Petrozzelli 

Fonti