Che i social network siano diventati il terreno privilegiato della lotta politica è ormai un fatto conclamato.

Immediatezza, multimedialità dei contenuti, velocità di condivisione e un’ampia cassa di risonanza hanno reso i canali della Rete il terreno perfetto su cui installare la macchina del consenso e portarla rapidamente a regime. Lo dimostrano le centinaia di migliaia di euro spese in sponsorizzazioni e la costanza maniacale con cui i capi politici pubblicano contenuti. Oltre ai profili personali dai quali ministri, leader e parlamentari diffondono il proprio verbo, è andato poi concretizzandosi un fenomeno particolare, ovvero la creazione di pagine satiriche impegnate in una feroce propaganda, ormai sempre più avvallata anche dai profili di noti giornalisti e/o influencer. 

Lo strumento principale di suddette pagine è il meme, un contenuto digitale fortemente espressivo e dall’alto potenziale di replicazione. Nato inizialmente con un carattere ironico e goliardico, il meme ha via via acquisito la funzione di veicolare messaggi denigratori per incentivare il risveglio delle coscienze. Le vicende dell’attivista Carola Rackete (ma potremmo citare anche quelle di Monti, Merkel, Putin, Trump, Greta Thunberg e così via) hanno offerto un esempio cristallino delle dinamiche in gioco.

Eroina per la sinistra, criminale per la destra, l’immagine della Rackete è stata allo stesso tempo innalzata e avvilita, senza soluzione di continuità e senza possibilità di sintesi. I memi che la coinvolgono rievocano tutta una serie di annosi stereotipi che spesso deviano dall’oggetto del discorso per rivangare i torti storici dell’uno o dell’altro partito. 

All’insanabile antitesi delle idee in lotta corrisponde una polarizzazione dell’opinione pubblica: chi difende Carola diventa un buonista radical chic che sogna un’Italia dominata dagli immigrati; viceversa, chi l’accusa diventa un razzista bigotto, egoista e ignorante.

Questo è lo schema che vediamo ripetersi da alcuni anni e che si rafforza con l’aumentare del traffico sulle pagine propagandistiche. Eppure, tale rafforzamento sembrerebbe rappresentare un’anomalia logica.

Se ciascuno schieramento è convinto di avere assolutamente ragione, perché non v’è alcuna presa di coscienza negli avversari? Se le denunce sono giustificate ed evidenti, perché la disputa non si risolve con la vittoria dell’una o dell’altra parte? Perché non vi sono conversioni?

Al contrario, le conversazioni sono inframezzate da offese e sarcasmo che inchiodano i contendenti sulle rispettive posizioni.

Il dialogo, si diceva, è compromesso quando la posta in gioco passa dal valore dell’argomentazione a quello della persona e del suo schieramento. Quando l’idea deve essere difesa non perché sia giusto e doveroso farlo, ma perché ne va dell’identità dell’individuo.

Già negli anni ’70 lo psicologo Henry Tajfel aveva individuato le cause alla base di questo tipo di atteggiamenti nella sua Teoria dell’Identità Sociale. I suoi studi mettevano in evidenza un bisogno primario per l’essere umano, ossia quello di avere una buona immagine di sé come individuo appartenente a un gruppo. Basta osservare i membri di una tifoseria o di un partito: essi cercano sempre un motivo a conferma del fatto che far parte di quel gruppo è bello e li rende delle persone migliori. La ricerca di Tajfel evidenziava però un dato inquietante circa le modalità con cui gli individui perseguono questo obiettivo. Anziché concentrarsi sulle qualità personali e sui risultati raggiunti, l’essere umano preferisce denigrare il nemico. Tutto comincia con una categorizzazione, con un’esasperazione sia delle similitudini all’interno del proprio gruppo, sia delle differenze rispetto a quelli percepiti come diversi. Si tratta del processo alla base della costruzione di stereotipi come “i popoli nordici sono distaccati” o “i popoli latini sono festaioli”.

Differenziato positivamente il proprio gruppo, l’individuo fissa la sua identità attraverso il confronto sociale, ed è qui che si attiva la strategia della denigrazione. Fra tutte le opzioni di confronto offerte da Tajfel nei suoi esperimenti, le persone preferivano quella che garantiva la maggior distanza possibile tra i gruppi, il che significava valutare negativamente il gruppo avverso piuttosto che valutare positivamente il proprio. Non contavano i risultati conseguiti, le imprese compiute, le difficoltà superate, la rispettabilità dei membri ingroup, né le loro abilità. Contava solo mettere in cattiva luce il “nemico”. Nel complesso, gli esiti della ricerca di Tajfel aprono a uno scenario drammatico secondo cui la conflittualità si radica nei bisogni fondamentali di ogni essere umano.

Tale scenario viene ben integrato dal report dell’Agcom del 2018, dal quale apprendiamo che l’utente nei social tende a ricercare delle echo chambers, ovvero dei luoghi in cui confermare le proprie convinzioni. La personalità fragile non può nemmeno permettersi il rischio che l’altro abbia ragione, poiché ciò creerebbe una dissonanza cognitiva, e tale dissonanza reca un grande dolore emotivo. Se le argomentazioni del nemico sono corrette, infatti, significa che io ho investito tante energie per niente, e questo il Sé non può tollerarlo. In questo modo la divergenza viene completamente tagliata fuori dal proprio orizzonte, e con essa la possibilità di un dialogo costruttivo.

Dati questi elementi, si capisce meglio perché i social siano diventati il teatro prediletto dello scontro politico. Sul Web è tanto facile creare un gruppo quanto aderirvi. I meme offrono una rapida categorizzazione, mentre commenti e condivisioni la rinforzano estendendo a macchia d’olio il confronto. Tutti possono partecipare alla disputa e reclamare un po’ di soddisfazione per il proprio bisogno d’identità. Il distanziarsi dei gruppi porta però a un irrigidimento delle convinzioni, che a questo punto devono essere difese anche a costo di ricorrere a fake news, post-verità o teorie del complotto. Nel frattempo, battuta dopo battuta, lo scontro si sposta sul livello personale e le ingiurie trovano libero sfogo. Il pensiero critico muore. Le peggiori emozioni si attivano. Il progresso si arresta.

Si spiega così l’inefficacia delle accuse reciproche lanciate da ogni schieramento politico. In un simile contesto nemmeno il migliore argomento sarebbe in grado di avviare una “conversione” perché la sola leva cognitiva non è abbastanza potente. Anche la leva emotiva della vergogna non sembra efficace, in quanto ogni individuo potrà trovare sui social una nutrita schiera di alleati con cui rimandare le critiche al mittente. Il problema allora non appare più solo politico, né soltanto culturale, ma anche e soprattutto psico-pedagogico. Comprendere e tenere conto dei meccanismi della mente nella formazione dell’identità non può più essere considerato un vezzo da intellettuali. Facebook, Instagram e Twitter interagiscono profondamente con questa meccanica, la esasperano e, nel contempo, le danno nuovo sfogo.

D’altronde, mai come oggi l’identità di un individuo è stata messa in discussione.

Mai come oggi si sono ricevuti stimoli che possono alimentare i complessi d’inferiorità acuendo, di riflesso, il bisogno di autostima.

Se intendiamo ridare dignità al dibattito politico, se vogliamo trovare soluzioni efficaci a problemi ormai noti, è necessario integrare i processi inconsci dell’essere umano nell’analisi dei fenomeni. Ottenuta così una spiegazione più esaustiva, potremo forse sviluppare una linea d’azione che spezzi le dinamiche del mero scontro antitetico in cui grande parte del Web pare intrappolato.

Una nutrita schiera di studiosi, tra cui Goleman, insiste da anni sulla necessità di sviluppare l’intelligenza emotiva sin da bambini. I suoi programmi prevedono corsi appositi per estendere la consapevolezza di sé e dei propri stati emotivi, la capacità di autocontrollo, di ascolto partecipato, di gestione del conflitto, di autosviluppo, ossia quel parco di abilità che sembrano mancare nel dibattito fuori e dentro la Rete. Altri, come Ennis e Dennett, integrano questa prospettiva insistendo sull’acquisizione delle abilità di pensiero critico, inteso come capacità di discernimento, analisi, valutazione e argomentazione razionale. Fondamentale, in entrambe le dottrine, risulta il sentimento di rispetto per l’avversario, condizione necessaria per qualunque dialogo costruttivo.

Ciò che serve, insomma, è un piano di educazione concreto e pervasivo

che non si limiti all’insegnamento di competenze tecniche, perché è stata proprio l’ipertrofia della tecnica a impoverire le competenze emotive, cioè quelle competenze che permettono di perseguire lo scopo fondamentale della politica: il bene comune.

Giuseppe Turchi

Fonti