Quanto scritto da Francesco Ciancimino nell’articolo “Un nuovo orizzonte, per noi e per l’Italia”  su questo blog è la perentoria testimonianza di un malessere che non sembra possa diminuire, senza un forte e urgente intervento di mutamento delle condizioni della vita comunitaria. I disagi che la società occidentale manifesta vanno valutati, oggi più che mai, come i sintomi di una grave inadeguatezza dell’ordine sociale in cui viviamo. E questo va fatto anche al di là delle prese di posizione politiche, spesso scelte transitorie e disperatamente opportuniste.

La società occidentale vive oggi una crisi esistenziale, nel senso proprio di messa in discussione della propria esistenza, ovvero delle forme di convivenza civile in cui si identifica. Queste non sono solo gli ordinamenti nominali su cui gli stati sono costituiti,  ma soprattutto l’insieme di norme che consentono il realizzarsi di ingiustizie sociali, spesso in palese contraddizione con i discorsi costituenti. Se le costituzioni europee e americana sono basate sull’affermazione di diritti dell’uomo che pongono al centro la sua libertà, la vita che di fatto il potere ci consente di vivere è minata dalla prevaricazione e dall’esclusione. 

Le facoltà individuali che vengono sistematicamente precluse sono quelle produttive. 

Il capitalismo dovrebbe consentire la libera iniziativa, e in questa prospettiva è stato in maggioranza entusiasticamente abbracciato dai popoli dell’est europeo dopo la caduta del muro di Berlino, tuttavia al suo interno si è sviluppato un sistema di monopoli che di fatto ha reso impossibile l’accesso al libero mercato da parte del libero produttore. Alla luce dell’affermazione di enormi cartelli commerciali nei settori vitali di base della società, come l’agro alimentare, e via via fino ai beni di minore necessità ma altrettanto importanti, come l’editoria, la libertà d’impresa appare ormai come un mito del passato.

Le imprese multinazionali hanno potuto assumere le dimensioni attuali, e in virtù di queste dimensioni la schiacciante superiorità a qualsiasi possibile iniziativa privata, grazie all’attuazione da parte degli Stati occidentali di una linea comune economica non interventista, sancita definitivamente dagli accordi di Bretton Woods nel 1944. La loro dismissione nel 1971 comportò principalmente la non convertibilità del dollaro in oro, senza mutare la formula liberista su cui la nostra economia di mercato è ancora fondata. Se, allora e per i successivi quarant’anni, la deregolamentazione poteva avvantaggiare anche la piccola impresa, e la crescita economica era supportata anche da forze autenticamente creative, oggi l’applicazione ininterrotta di questo paradigma ha reso impossibile la coesistenza di attori produttivi alla pari, e con essa il principio di concorrenza. 

Non è più infatti, secondo il vecchio adagio, la qualità a pagare, ma la mera capacità di produrre profitto: ammesso che ci siano più  soggetti in grado di produrre un bene a parità di qualità e di costo, attrarrà capitali terzi quello che potrà garantire agli azionisti maggiore redditività. 

Dopo il cottimo e la catena di montaggio, negli ultimi vent’anni i costi di produzione si sono ulteriormente ottimizzati attraverso l’“esternalizzazione” in aree economicamente più arretrate e legislativamente più flessibili. Grazie poi al lassismo legislativo internazionale in materia di speculazione, il capitale dei maggiori azionisti si è potuto moltiplicare e accumulare nei paradisi fiscali, rimanendo di fatto inerte e sottraendo liquidità alla comunità. Questo processo, accompagnato dalle politiche di deflazione e austerity, ha generato una progressiva disparità di reddito e di patrimonio tra la stragrande maggioranza della popolazione, non esclusa quella benestante, e una ristretta cerchia di accumulatori. Costoro si trovano nella condizione di incondizionato controllo dei prezzi, così che si sono potuti ridurre i costi al consumo. In questo modo, l’accesso al mercato da parte di produttori non coinvolti in questo circolare processo di monopolio-speculazione-accumulo risulta impossibile.

L’accumulazione di denaro comporta l’acquisizione, da parte di quella stretta cerchia, del potere di dismettere interi settori produttivi e di impoverire gli strati della società dediti ad attività non funzionali alla perpetuazione di quel processo. 

A tal fine, questo potere distruttivo ha acquisito anche la proprietà esclusiva degli spazi comunicativi, per cui i discorsi e in genere i prodotti intellettuali non condiscendenti verso il gioco del profitto, e che non lo lascino apparire come unica via di salvezza, vengono relegati a luoghi marginali e privati, a piccole cerchie di interessati.

L’opportunità di entrare nel Gotha è offerta anche a chi non ha partecipato alla sua genesi, ma che semplicemente detenga il capitale necessario per farsi capocordata di una catena fiduciaria di investimenti azionari. La speculazione finanziaria è stata, a questo proposito, una opportunità senza precedenti per le mafie, soggetti detentori di capitale di provenienza illecita, di legalizzare i loro affari e di entrare ad un certo livello della catena del profitto-potere, per poi riesercitare il monopolio della produzione, senza dover ricorrere ai metodi violenti usati precedentemente per compiere la prima accumulazione.

A coloro che di fronte a questo tema paventano l’intenzione di instaurare un regime socialista e di abolire la proprietà privata, è importante segnalare che non è questo lo scenario che qui si auspica. Il passo decisivo per avanzare una posizione morale alternativa alla giustificazione del processo di monopolio-speculazione-accumulo spetta anzi proprio ad una borghesia europea non ancora stretta nelle maglie della scarsità e in grado di produrre un nuovo discorso comunitario. 

Non si tratta, qui, di limitare l’iniziativa commerciale e di impedire che se ne tragga profitto, ma semmai di evitare che questo raggiunga dimensioni tali da impedire la stessa libertà d’iniziativa.

Ciò che il pensiero liberale sanciva come principio speranziale per raggiungere il benessere collettivo, cioè il perseguimento dell’interesse individuale, ha consentito la costruzione di una società in cui l’individuo può immaginarsi solo come consumatore, e in cui è disponibile a fare sempre di più e di sempre peggio per procurarsi i mezzi per accedere al consumo. Penso sia legittimo, di contro, auspicare una società che ci includa anche come produttori di beni, immagini, di discorso e di arte, cioè come viventi essenzialmente creativi.

In questa prospettiva, è necessario limitare il profitto alla congrua misura che consenta la soddisfazione di un desiderio di proprietà orientato ad un utilizzo personale dei beni. Può trattarsi anche di patrimoni ingenti, ma che sottoposti al limite oggettivo di apparire “alla luce del sole”, eviterebbero di intraprendere il corso dell’accumulazione esponenziale che sta operando, in ragione della sua inesorabile prevalenza su qualsiasi principio comunitario, la distruzione del pianeta e dell’umanità.

Carmelo Leotta