Quando ci chiedono perché ci siamo schierati per il No, rispondiamo che esistono almeno dieci buoni motivi per dire No a questa riforma e nemmeno uno per dire sì. Eppure ci siamo sforzati di cercarne almeno uno. Se non altro per adempiere a una delle parole d’ordine delle nostre piazze, che suonava così innovativa nell’epoca dell’antipolitica: la complessità.
La questione referendaria non può non essere una battaglia del nostro movimento e non solo perché la costituzione rappresenta il campo d’azione dentro il quale nuota il mare delle sardine, ma perché il quesito tocca il fulcro della sovranità popolare. E lo fa nel modo più subdolo possibile: completando un disegno iniziato più di 30 anni fa che è passato dapprima per la graduale delegittimazione dei partiti, dei sindacati, delle associazioni (pensiamo alle ONG), delle cooperativa e di tutte e tutti coloro i quali cercano di portare avanti il principio costituzionale della piena uguaglianza. Passaggio fondamentale in questo processo è stata l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Questo percorso non ha fatto altro che generare un profondo distacco tra popolazione e istituzioni. Una frattura siderale che, dopo questa riforma, sarà ancora più difficile da colmare.
Proviamo a fare un ragionamento sul perché.
Il grande poeta Kayyām diceva: “Pien di stupore son io pei venditori di vino, ché quelli / che cosa mai posson comprare migliore di quel ch’han venduto?” (i più attenti avranno subito ricordato la parafrasi del verso fatta da De Andrè nella canzone “La Collina”). Oggi ci poniamo la stessa domanda: chi risparmia sulla democrazia, dove pensa di investire meglio il suo denaro? La democrazia non è e non può essere economica e questo perché la democrazia esiste per dare voce ai bisogni delle persone che di soldi non ne hanno.
Davvero chi voleva portare un cambiamento nel paese e ridare potere e centralità alla cittadinanza è arrivato a mercificare la rappresentanza democratica?
Non ci sorprende certo, che chi mercifica e specula sul prezzo della democrazia innalzi il concetto di efficienza a unico criterio di governabilità. Certo ce lo saremmo aspettati da Ronald Reagan o Margaret Thatcher, non da chi si presentava come un rivoluzionario. Sfatiamo un mito: un Parlamento meno numeroso non è più efficiente, semplicemente è un Parlamento che produce leggi peggiori. E si gioca – come spesso accade usando l’arma del populismo – con il fatto che in pochi conoscono il vero funzionamento del sistema legislativo: il cuore del Parlamento italiano sono le Commissioni parlamentari (quelle italiane, come quelle americane, sono definite “forti” per gli ampi poteri che hanno).
Le Commissioni possono riunirsi in sede referente (discute il dl punto per punto e prepara il lavoro all’aula), consultiva (esprime un parere sul dl di un’altra commissione), residente (la Commissione esamina e vota punto per punto il dl e all’aula spetta solamente votare la legge nel suo complesso) e legislativa (la Commissione vota sia punto per punto che la legge nel suo complesso. Il dl viene così approvato senza bisogno che passi mai dall’aula). Nonostante il taglio dei parlamentari, le Commissioni permanenti resteranno, giustamente, 14 quali già sono. Il problema è che non essendo stati stati modificati i regolamenti, attualmente non tutti i gruppi (specie quelli piccoli e medi o le componenti politiche del Gruppo misto) riuscirebbero ad essere rappresentati nelle Commissioni: se al Senato è previsto – dall’articolo 21, comma 2 del Regolamento – che uno stesso senatore possa essere assegnato a tre Commissioni permanenti, non compromettendo la presenza delle minoranze nelle Commissioni, alla Camera i deputati non possono essere designati per più di una Commissione – per l’articolo 19, comma 3 del Regolamento parlamentare – quindi espletare le loro funzioni di controllo. Quindi se alla Camera i piccoli e medi partiti non potranno essere presenti in tutte le commissioni, generando un problema di rappresentanza, al Senato questo sarà possibile ma con un ulteriore rallentamento del sistema legislativo.
Tutto questo, com’è ovvio, non produrrebbe efficienza, bensì rallenterebbe e abbasserebbe la qualità delle leggi prodotte dal nostro Parlamento.
E’ ovviamente innegabile che una riforma costituzionale non solo è possibile, ma è fortemente necessaria per il rinnovamento della nostra democrazia: il Governo e il Parlamento devono saper rispondere ai bisogni dei cittadini e intercettarli in tempi certi. E’ quindi chiaro che l’efficienza del Parlamento poteva essere uno dei motivi per volere con forza questa riforma. Eppure come abbiamo visto, non sarà questo un criterio per cui varrà la pena confermarla. Posto quindi che i grandi cavalli di battaglia dei sostenitori del Sì risultano ampiamente confutabili, non possiamo non tenere conto del danno sociale e culturale che deriverebbe da questa riforma. I problemi di credibilità, rappresentatività e potere decisionale delle istituzioni – come dicevamo prima – hanno radici molto complesse, e assecondare la retorica dell’antipolitica favorirà la cultura dei leader, della personalizzazione della politica, e delle dinamiche di auto-referenzialità. Tagliando il numero dei parlamentari in questo modo, si mette in discussione la democrazia parlamentare muovendosi verso una versione decisionista e meramente esecutivista della cosa pubblica.
La vittima sacrificale di tutto questo sarà il pluralismo parlamentare. Dopo il taglio, avremo 1 deputato ogni 150 000 abitanti circa. Minando la rappresentanza si mina il principio di sovranità popolare, e ancora una volta, il Sud – così come le aree interne – ne uscirà fortemente indebolito: avrà molta meno rappresentanza un territorio che avrebbe bisogno di avere molta più voce. Ciò risulta particolarmente evidente al Senato dove le cosiddette soglie implicite creeranno forti disparità tra le regioni del nord e quelle del sud (un esempio tra tutti: la Basilicata subirà un taglio del 57% mentre il Trentino Alto Adige del 14,3%).
C’è un video del 1984, molto utilizzato dalla propaganda per il SÌ, in cui Nilde Iotti sostiene che il numero di parlamentari venne fissato così alto all’indomani della guerra poiché all’epoca non vi erano regioni e province, ma nel frattempo, essendo passati 40 anni ed essendo sorti tali organi territoriali intermedi, il Parlamento poteva essere ridotto di numero. Peccato che anche tra l’intervista della Iotti e noi siano passati quasi 40 anni! Il contesto mondiale (soprattutto a seguito del crollo del Muro di Berlino) è totalmente cambiato: c’è stato Maastricht, si è tornato a parlare di città-stato e la globalizzazione avanza a ritmi vertiginosi.
Le 10 regioni meno popolose di Italia (Calabria, Sardegna, Liguria, Marche, Abruzzo, Friuli-Venezia-Giulia, Trentino Alto Adige, Umbria, Basilicata, Molise e Valle d’Aosta), sommate tra loro, hanno meno abitanti di Lagos (ca 12 000 000 vs ca 16 000 000). Se è assolutamente importante che certe zone poco popolose non vengano dimenticate ma anzi rafforzate, al contempo la pandemia di Covid ci ha mostrato come una grande diffusione di poteri sui territori possa essere un’arma a doppio taglio.
Veramente in un contesto sempre più globalizzato pensiamo che puntare sulla presenza delle regioni e indebolire Parlamento (organo centrale, unico che possa giocare un ruolo a livello europeo) e Province (ormai non più elette dalle cittadine e dai cittadini) sia la cosa migliore?
Per evitare che si crei ancora più disparità di rappresentanza – tra nord e sud, tra aree metropolitane e periferiche, tra aree interne e urbane – sarebbe necessario apportare delle modifiche sui regolamenti, come per esempio non eleggere più i senatori su base regionale ma creando delle circoscrizioni differenti. Peccato che queste modifiche non siano al momento previste. Per passare da collegi a circoscrizioni servirebbe un’ulteriore riforma costituzionale. Qualora ciò non venisse fatto (cosa assolutamente probabile, allo stato attuale) si genererebbero collegi talmente vasti da rende meno accessibile la politica alle classi meno abbienti, alle minoranze e ai giovani. Anche a causa dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, molto difficilmente un giovane o un meno abbiente potrà provare a candidarsi e a prendere parte attiva al processo politico, poiché avere collegi molto più grandi significa avere campagne elettorali molto più costose (distanze più grandi, costi di spostamento e pernottamento più grandi, necessario uno staff maggiore per poter fare campagna su tutto il territorio ecc.). Con un collegi elettorali così ampi chi verrà eletto, il vecchio parlamentare da decenni in Parlamento (e magari una solida rete di preferenze e clientele sul territorio) o il giovane outsider, attivista sul territorio con poche risorse economiche? Questa riforma è una riforma che rende i forti ancora più forti e i deboli ancora più deboli. Fortificando così quella che molti chiamano Casta e le segreterie dei partiti, rendendo il gruppo dirigente esistente sempre più insormontabile.
Tutto questo risulta ancora più assurdo se pensiamo che negli ultimi anni solo i movimenti appartenenti alla società civile siano riusciti a mostrare capacità di mobilitazione della popolazione – e non lo dimostrano solo le nostre piazze, ma anche quelle degli Invisibili, dei Pride e di Fridays For Future – mentre i partiti politici hanno mostrato una graduale incapacità di mobilitazione (e formazione) di militanti. Questa ricettività agli impulsi della società civile ma freddezza verso i partiti da parte delle persone mostra come vi sia desiderio di maggiore giustizia, bisogni reali a cui rispondere e problematiche da risolvere.
La frattura creata dalle ingiustizie ormai è plurale, attraversa le disuguaglianze più disparate, da quelle di genere a quelle etniche, da quelle geografiche a quelle anagrafiche. Di fronte a questo contesto di mobilitazione apartitica, riteniamo non sia più più il tempo di lasciare che la politica sia un gioco di pochi, serve un cambio di passo per preservare la democrazia e serve ora. Se da un lato vi è una necessità di fermare una riforma che sancirebbe un sensibile peggioramento delle possibilità politiche degli ultimi, dall’altro bisogna riprendere un cammino che riconcili i blocchi sociali dimenticati con le formazioni partitiche. Una volta si sarebbe parlato di democratizzazione dei partiti, e forse sarebbe il caso di riattualizzare il termine. Questa riforma invece va nell’esatta direzione opposta e appare più come un tentativo di conservazione reazionario piuttosto che un vero cambiamento.
Questa riforma cerca un capro espiatorio (i politici fannulloni) per compattare un fronte insoddisfatto dalla crisi del 2008 ed evitare che tale fronte possa giungere a una più sviluppata coscienza politica.
Un filosofo di Treviri, parlando delle lotte sociali in Francia, parlava della bella e la brutta rivoluzione. La bella rivoluzione è quella di facciata, che genera un cambiamento apparente e superficiale e proprio per questo è sostenuta con entusiasmo da tutti. La brutta rivoluzione, invece, è quella reale, che va a intaccare i reali sistemi di potere scardinando i rapporti di forza e proprio per questo viene sotto sotto temuta e ostacolata. Questa riforma altro non sarà che una “bella rivoluzione”, che inibirà le possibilità di cambiamento (e di “brutta rivoluzione”) per molto tempo.
Ma lo spirito della riforma, forse, lo aveva colto molto meglio Tomasi da Lampedusa, il quale nel suo celebre Gattopardo faceva dire, al giovane e conservatore Tancredi “Se vogliamo che tutto resti com’è, serve che tutto cambi”
Articolo di Anna Claudia Petrillo e Alessandro Maffei, pubblicato su L’Espresso