La maggioranza dei votanti ha preferito il “sì” al referendum del 20 e 21 settembre 2020. Questo significa che la Camera dei deputati passerà da 630 membri a 400, e il Senato da 315 (oltre ai senatori a vita e gli ex Presidenti della Repubblica) a 200. Durante la campagna referendaria abbiamo avuto modo di approfondire la questione, ma ora che sappiamo l’esito è più facile delineare gli aspetti che maggiormente caratterizzeranno la discussione sul tema: ne abbiamo bisogno per l’evidente incompletezza della riforma.

La commissione competente della Camera sta lavorando per una nuova legge elettorale, necessaria a causa dell’alterazione della rappresentanza scaturita dalla riduzione dei parlamentari. Si tratta di una legge ancora in piena discussione, che potrebbe subire grossi cambiamenti da ora alla sua approvazione. Essa prevede una proiezione in senso proporzionale dei consensi raccolti da ciascun partito, con una soglia di sbarramento al 5%. Sono ancora presenti le liste bloccate; ciò significa che gli elettori non hanno il diritto di dare delle preferenze all’interno di un partito ad un candidato piuttosto che a un altro. Il parlamento dovrà affrontare seriamente il problema della rappresentanza delle minoranze; non si stanno escludendo due riforme per il senato, che consistono nell’elezione a 18 anni dei senatori (che ora avviene a 25) e l’elezione circoscrizionale anziché su base regionale. 

La vita istituzionale e la storia del nostro Paese, senza tralasciare il carattere individualista che si è tremendamente impossessato di ognuno di noi, hanno fatto sì che la cultura maggioritaria dei nostri tempi influenzasse le nostre vite, e la riduzione dei parlamentari ne è la dimostrazione ultima. Ormai solo i grossi movimenti o i grandi partiti hanno davvero un ruolo influente nella società. Ma cos’è la democrazia se non un sistema nel quale la minoranza può diventare maggioranza? Abbiamo urgente bisogno di ritrovare la capacità di ascoltare e di vedere, nonché apprezzare la pluralità che colora la collettività, saper cogliere le frustrazioni e le necessità delle persone. Là fuori esiste una quantità enorme di persone che vogliono cambiare le cose, che sono disposti a fare sacrifici pur di fare del bene alla società; il vero problema è che si sentono isolate. È evidente la necessità di un movimento o un partito che riunisca queste persone in un solo corpo. La loro mancanza, o le loro debolezze, rendono impossibile riunire quelle persone, che oggi sono sparse come un vetro frantumato. Ciò non toglie che tale movimento (o partito) già esista. Vi presento due esempi concreti. 

Il primo riguarda le sardine. Le sardine sono riuscite, in un momento di crisi, a riunire e raccogliere tutte le preoccupazioni che serpeggiavano tra la gente, e non si può dire che non abbiano avuto successo. Il secondo esempio è portato avanti dalla ricostituzione del Partito Comunista Italiano, un esperimento coraggioso in un’Europa post-idealista e ormai incondizionatamente anticomunista (ribadito dalla risoluzione del parlamento europeo nel 2019) come il nostro. Il nuovo PCI non è certo, oggi, un partito di massa forte e garante di un cambiamento, ma questo ambizioso esperimento vuole andare in quella direzione. Vede speranza in una sinistra alternativa, come l’hanno vista negli ultimi anni i diversi tentativi socialisti e comunisti, che non hanno tuttavia trovato il modo di riportare la rappresentanza ai tempi che furono. Detto questo, si guardi anche ai piccoli partiti, che sopravvivono senza avere, almeno apparentemente, alcun peso capace di portare un cambiamento. Pare che le piccole realtà non abbiano alcun ruolo politico o sociale di rilievo: tutta la nostra attenzione si presta ad ascoltare quelle poche persone “importanti”. E chi non riesce a inserirsi, continua a sognare da solo. 

Oltre a ciò, manca un altro elemento essenziale: gli spazi. Oramai ci abbiamo fatto l’abitudine, forse non ne sentiamo neanche più la mancanza. Solo il lockdown ha fatto riscoprire il valore degli spazi comuni, dei luoghi di incontro. Pensate ai circoli, alle piazze, a tutti gli edifici ad oggi fuori uso. La lista potrebbe proseguire. Siamo tutti coscienti del fatto che la politica ha completamente tralasciato la questione degli spazi comuni: l’abbandono progressivo dei luoghi di aggregazione ha condannato la classe dirigente ad un costante allontanamento dalle persone, e quindi all’autodistruzione. Questa è tra le principali cause dell’anomalo disinteresse dei giovani alla comunità, agli spazi che appartengono anche a loro. La politica deve investire nuovamente negli spazi, ricominciare a riunirsi nelle piazze, re-imparare ad ascoltare i bisogni delle persone e a saperli mettere assieme (cos’è la politica se non questo?). Qui si aprirebbe un altro tema importante, che accenno brevemente con l’auspicio di poterne trattare più nello specifico in futuro. Mi riferisco alla cosiddetta “tuttologia”. L’orecchio che la politica deve porgere ai bisogni della società ha negli ultimi anni trasformato la bocca dei politici in macchinari che torturano. Alle televisioni, alla radio, sui giornali, sui social, si sentono sempre i politici parlare, spesso e volentieri assistiamo ai loro bisticci personali. L’ascolto è degenerato in un impulso a dover parlare di qualsiasi cosa, spinti dal consenso. Sembra che tutti i politici sappiano tutto, e debbano dunque esprimersi su tutto. Un megafono che, tuttavia, non basta a riempire il vuoto. Anzi, lo esaspera. Le voci martellanti di oggi devono trasformarsi in umili bocche capaci di dare conforto e uno sprone per rendere operativo ciò che si dice. Il tema del linguaggio, mediatico e non, usato dalla politica, è altresì dirimente. Quello utilizzato oggi è il più delle volte un linguaggio impreciso, aggressivo e distruttivo, emblema della cattiva politica. Un linguaggio che mira a dividere, anziché unire. E se unisce, lo fa nel nome del rancore, se non dell’odio. Non a caso, il gruppo delle Sardine si è proposto sin dalle origini come portatore di un modo di comunicare alternativo, pacifico e costruttivo.

Dunque, abbiamo detto della fatica di movimenti, partiti di massa e della mancanza di spazi, ma non abbiamo ancora rammentato i grandi scioperi. Penso, per fare un esempio vicino a noi, ai global stikes dei Fridays For Future. La battaglia che portano avanti è di fondamentale importanza e vicina alla sensibilità di molti; basti pensare al successo del primo sciopero, avvenuto l’anno scorso. Credo però che quella energia tanto forte e condensata sia da concentrare in scioperi ancora maggiori, quando negli ultimi mesi quell’adrenalina è stata sciolta nell’aria.

È chiaro a tutti che, in aggiunta al predominio della cultura maggioritaria, il referendum ha messo in luce una crisi ancora più grande, una crisi democratica di sistema. Al giorno d’oggi, la democrazia è intesa come un mero voto periodico, una semplice delega, come confermato dalla vittoria del “sì” al referendum. Questo terribile trend che si va fortificando si lega in modo inscindibile alla crisi dei movimenti, dei partiti, dei grandi scioperi. Il concetto di cittadinanza attiva è oggi un miraggio, e questo ha fatto sì che la politica sia percepita come un interesse di pochi e qualcosa di distaccato dalla vita, nella migliore ipotesi una professione esclusiva, nella peggiore un hobby. Quando dovrebbe essere insegnato che quando leggiamo, quando lavoriamo e quando compriamo -per dirla con un “vecchio” slogan- noi stiamo facendo politica. Questa tendenza culturale deve in tutti i modi invertire rotta. 

Non possiamo più accontentarci di una società spenta: urge ritrovare il senso di comunità che ha sempre segnato l’essenza umana: dobbiamo volere credere in qualcosa di grande. 

Altrimenti cosa diremo alle prossime generazioni? Che cercavamo il telecomando? 

Giovanni Greco

Questo testo è stato pubblicato anche sulla pagina de L’Informazione Giovane