Vorrei affrontare un argomento piuttosto ostico e per qualcuno di difficile digestione. Per questo cercherò di farlo nel modo meno tecnico possibile, cercando di renderlo facilmente leggibile anche dal sottoscritto.

In “Parliamone”* di mercoledì 9 dicembre, è stato affrontato il tema dell’evasione, o meglio, dell’elusione fiscale delle multinazionali in Europa. Titolo: “Giustizia fiscale e Multinazionali: a che punto è l’Europa?”; relatore: prof. Tommaso Faccio, docente di Accounting alla Nottingham University Business School.

La situazione: le multinazionali riescono a eludere il pagamento della stragrande maggioranza delle tasse nelle nazioni dove avvengono le vendite, o dove il loro reddito dovrebbe essere tassato, mediante lo spostamento della loro sede fiscale nei cosiddetti paradisi fiscali.

Le cifre delle tasse eluse sono da capogiro: la stima del TAX JUSTICE NETWORK nel novembre 2020 è di 427 miliardi di dollari l’anno.

Ovvero, se vogliamo essere più chiari di quanto possa essere alta questa cifra, 33.915.688 stipendi di infermieri.

Ovvero: un salario di un infermiere perso ogni secondo.

Al che ci si immagina che tali paradisi siano delle remote ed esotiche terre dove prevalgono il numero di palme rispetto al numero degli abitanti.

Manco per idea.

A parte il leader indiscusso ovvero le famosissime isole di Cayman, gli altri paradisi sono rappresentati da Paesi occidentali o che dell’occidente vorrebbero essere parte.

Nelle prime dieci posizioni troviamo infatti la Svizzera, l’Olanda, il Canada, l’Irlanda, la Cina e il Giappone per un totale di oltre 270 miliardi di dollari.

E già questo la dice lunga su alcune situazioni di apparente purismo da parte di Paesi come l’Olanda, che con 40 miliardi al 4° posto e che predicano bene e razzolano maluccio. Ma poi ci sono i Paesi che fanno della “facilitazione” fiscale uno strumento che permette alle proprie aziende nazionali di avere un sistema di tassazione IRES negativo. E questo perché l’Irlanda ha creato un sistema di tassazione dei profitti delle aziende multinazionali, in particolare con la Apple, per la quale prevede un’aliquota dello 0,005% ma che gli permette di essere il Paese con la percentuale più alta di IRES versata dalle multinazionali nei confronti di tutto il sistema fiscale. Il 65% dell’IRES totale irlandese deriva dalle transazioni economiche di tutta Europa. Dal grafico si può capire come alcune nazioni possano stare in piedi solo grazie al fatto di essersi proposte come sponda al sistema elusivo di tali aziende. Non solo: permette anche di incrementare il PIL grazie al fatto che, per le proprie aziende, il saldo tra tasse pagate e contributi e agevolazioni ottenuti rappresenta addirittura un profitto per le aziende.

Se vi ricordate qualche anno fa si parlava dell’acronimo “PIGS” (lett. MAIALI) ovvero le nazioni finanziariamente più in difficoltà nel sistema economico europeo. La “I” di pigs era l’Irlanda. Ecco il cambiamento da “i” come Irlanda a “i” come Italia è dovuto proprio a questa scelta.

E tutto questo comporta non solo danni per il sistema fiscale dei paesi, ma anche un profondo e dannoso sistema di concorrenza sleale anche per le imprese private che non possono accedere a tale agevolazioni.

Se non si approfondisce si rischia di accusare come al solito l’Europa di avere due pesi e due misure, concetto tanto caro ai populisti. Viene da domandarsi il perché nel periodo pre Covid-19 la Commissione europea fosse così attenta ai parametri di stabilità e fosse invece così tollerante riguardo a scelte fiscali dei singoli Paesi che danneggiano l’intero sistema. In realtà un intervento era stato fatto nel 2016 quando la Commissione aveva considerato il trattamento fiscale alla Apple da parte dell’Irlanda come un aiuto di stato che ledeva la libera concorrenza.

Era stata stabilita la cifra di 13 miliardi che l’azienda di Cupertino avrebbe dovuto versare nelle casse del fisco irlandese, il quale si oppose e fece ricorso assieme alla Apple a tale decisione. Per molti che non conoscevano la situazione sembrava una contraddizione, ma basta approfondire un po’ per capire che quei 13 miliardi sono noccioline rispetto alle entrate che perderebbe l’Irlanda negli anni a venire. Ma non è tutto. Nel luglio scorso il tribunale europeo ha annullato il provvedimento della commissione europea perché essa non era riuscita a dimostrare senza ombra di dubbio, il “vantaggio selettivo”.

Quindi niente da fare…le regole sono quelle.

Ma allora perché non cambiare le regole europee?

La risposta è semplice: le regole che non prevedevano tale situazione, non sembrano essere modificabili.

Proprio così!

In ambito di regime fiscale le riforme da applicare possono essere modificate solo con l’unanimità dei voti dei singoli Stati nel Consiglio europeo.

Inutile quindi pensare che Lussemburgo, Irlanda e Olanda possano decidere di mettere in discussione un sistema che per loro è “grasso che cola”.

Risultato: Una proposta già approvata del Parlamento europeo di una tassazione unitaria (EU common consolidate corporate TAX BASE) è stata bloccata in Consiglio.

Quindi pensare di risolvere il problema mediante la strada interna europea diventa una vera e propria utopia.

Altra soluzione pensata dall’Europa è quella della “reputazione delle aziende“. Ovvero la pubblicazione dei dati delle multinazionali (fatturato, dipendenti, profitti, imposte pagate), per segnalare ai consumatori tali storture.

Ma, provate ad indovinare? La proposta è anch’essa “BLOCCATA” IN CONSIGLIO EUROPEO.

Quando sentite parlare di Europa che non funziona in realtà si sta parlando di “Consiglio europeo” che non funziona. Teniamolo sempre presente e facciamolo presente.

Per questo si sta percorrendo la strada di una TASSAZIONE MINIMA GLOBALE già in fase di negoziazione in sede OCSE. In realtà l’amministrazione Trump ha iniziato una propria battaglia contro il sistema di elusione, ovviamente dal punto di vista del sistema di tassazione statunitense che vede astronomiche cifre perse a causa del mancato versamento da parte delle multinazionali americane, che hanno sedi fiscali nei paradisi fiscali. Apple, Mc Donald’s, Microsoft, General electrics, Exxon e i recenti colossi come Amazon riescono ad eludere miliardi di tasse statunitensi mediante questo sistema.

Per questo gli USA nel 2017 hanno iniziato una riforma fiscale di tassazione dei profitti minima del 10,5%. Il neo eletto presidente Biden ha proposto in campagna elettorale l’innalzamento al 21%. Ma tali importi potranno essere pagati solo al momento che rientreranno negli USA. Per questo si stanno accumulando cifre esorbitanti nei paradisi fiscali.

Comunque tale soluzione porterebbe giovamento solo alla questione concorrenza sleale (e non sarebbe poco), ma nessun vantaggio alle casse dei paesi dove avvengono le transazioni economiche, Europa compresa.

Altra soluzione sul banco è la “web tax”, tassa prevista solo per le aziende digitali. Ma in realtà questa tassa rischia di essere traslata sugli utenti finali creando ancor più danni.

 

Insomma il problema è ben lungi da poter essere risolto!

La mia sensazione è che tra le regole estremamente liberali degli USA e l’assenza di regole dei Paesi asiatici, l’Europa con regole controverse e immutabili rimarrà stritolata dai due nuovi blocchi.

E non solo.

Le conseguenze per gli Stati dell’Unione europea sono drammatici, ma anche quello per le piccole medie imprese che ne fanno parte potrebbero essere letali. Quest’ultime infatti si trovano ad essere le uniche individuabili dal fisco tra “evasori totali” e “elusori totali”.

Urge una grossa riforma dei trattati e un nuovo equilibrio se vogliamo che il vecchio continente possa giocare la propria partita del futuro. Il mondo senza l’Europa e la sua maturità rischia di proseguire verso quel disastro socio-economico e ambientale che par essere ancora non ben chiaro e prioritario nella mentalità dei due giganti.

Lorenzo Rossomandi

*Parliamone è il momento di incontro delle Sardine.

Le tabelle e i grafici inseriti nel testo sono stati gentilmente resi disponibili dal prof. Faccio.

Questo testo è stato pubblicato sul blog Sardine Creative.