Quando il mio carissimo amico Alberto mi ha chiesto di scrivere due righe sul blog delle Sardine riguardo al G8 di Genova, non ho potuto fare a meno di (ri)presentargli i miei storici dubbi su cosa fossero e quali pratiche agissero i ragazzi delle Sardine, sui significati che inevitabilmente si portano appresso, sulle connotazioni spettacolari che li circondano: una identità non chiara; la complicità con il PD di Bonaccini in Emilia Romagna; il linguaggio prettamente estetico, prevedibilmente catturato e alimentato dai media; l’utilizzo entusiastico di immagini e social; la nonviolenza pacificata e passivizzata e la dichiarazione di distanza dal corteo dei centri sociali a Bologna. Insomma: il conflitto che c’è e non c’è, forse persino l’estetica del conflitto che c’è e non c’è. 

Una cosa deve essere chiara, preliminarmente: non siamo i classici duri e puri e non vogliamo dare lezioni a  nessuno, mai, su nulla (da ora in avanti userò il plurale perché siamo una rete, e a nome di quella scrivo). 

Certamente le Sardine hanno scosso l’addormentata scena sociale in cui la non-etica salviniana si stava  diffondendo, trascinando in piazza migliaia di persone che magari in piazza non c’erano mai scese, ma di sicuro non hanno fatto scattare in piedi i veri Signori del feudo Italia, quei grandissimi imprenditori con cui i leaders non hanno mancato di farsi fotografare sorridenti, trasformandosi ancora in carne da cannone per il dibattito interpartitico in modo fin troppo ingenuo. La razionalità della governance neoliberale consente e richiede forme ambivalenti di partecipazione a basso tasso di conflittualità: il punto è, dunque, che solo forzandone la soglia è possibile scardinare quel meccanismo, pur partendo dal suo interno.

È per queste ragioni che ci riteniamo distanti anni luce da quel modo di intendere la protesta – e non siamo certo dei black bloc – perché un’opposizione che non spaventi chi comanda davvero, non può che avere l’effetto controproducente di “autorecintarsi”, di contenere il dissenso dentro limiti comunque prestabiliti dal modello vigente. Hanno smosso le coscienze, risvegliando una morale più “umana”. Alla sinistra che ci si confà un po’ di più, al momento, probabilmente non riesce neanche quello. Ed è vero che, come ha scritto qualcuno, senza l’umano non c’è politica. Ma siccome sappiamo quanto tutti questi discorsi sull’integrazione e il depotenziamento della protesta siano legati a Genova 2001, e noi ci occupiamo di Genova 2001, non possiamo non rimarcare la nostra distanza politica o, se preferite, ideologica. 

Nonostante tutto ciò, però, se qualcuno è arrivato a leggere sin qui senza pensare che stiamo sputando nel  piatto dove mangiamo, oppure è andato avanti armandosi di pazienza per capire cosa ci stiamo a fare sul  blog di un movimento che non riconosciamo come nostro, è giunto il momento di ripagare i suoi sforzi.  

Noi siamo NarrAzioni, una rete di persone accomunate dall’aver realizzato una ricerca sul G8 di Genova: tesine di maturità, tesi di laurea o di dottorato, articoli, saggi. Ci proponiamo di mettere a disposizione i testi dei nostri lavori insieme alla documentazione che abbiamo raccolto in modo da realizzare un piccolo  archivio on line, ospitati in una sezione del Comitato Piazza Carlo Giuliani.

Siamo una rete di ricercatori (in  senso lato), per questo possiamo e dobbiamo permetterci un approccio da ricercatori, che possono parlare  anche con soggetti non perfettamente in linea con le tendenze politiche dei singoli componenti della rete, perché non siamo un collettivo politico, non partecipiamo delle pratiche e nemmeno delle fondamenta teoriche dei soggetti con cui dialoghiamo, ma siamo, appunto, una rete di ricercatori che può dialettizzare anche con persone o gruppi con cui, magari – ed è proprio questo il caso –, non si cercherebbe il contatto in vesti di singoli, o in vesti militanti operative/strategiche (per prevenire equivoci, abbiamo i nostri paletti inderogabili nell’antifascismo – che non è un’opinione – e intendiamo la nostra attività anche in senso di critica alle opinioni che riceviamo).

Siamo di parte, ma non parziali. E siccome come NarrAzioni vogliamo essere “tattici”, andare oltre il nostro spazio “militante”, fatto di chi sta già in qualche modo dentro le storie che vogliamo raccontare, mettere continuamente in discussione le premesse dei canali con cui lavoriamo, sentirci sempre in divenire, crediamo che sia opportuno accettare questo invito a riportare Genova nel discorso pubblico (che poi in definitiva è il nostro intento finale), tra l’altro attraverso un blog che coinvolge tantissimi/e giovani che non hanno mai incontrato queste storie. 

Soprattutto crediamo che sia opportuno farlo quest’anno, nell’anno del ventennale del G8.

Non perché un anniversario “tondo” sia più importante di un altro qualsiasi, ma per prepararci e rispondere all’attenzione – e al tipo di attenzione – che l’apparato comunicativo mainstream dedicherà alla ricorrenza (possiamo già immaginare quante telecamere nazionali vedremo a piazza Alimonda il 20 luglio, per dirne una).

Dunque, parliamo di Genova. Ma come? 

Ci sono tanti modi di parlare di Genova: diceva bene Marco Philopat, quando sosteneva che “Genova è tutto. Proprio tutto”. Le angolature da cui partire sarebbero infinite, perché “Genova”, che con le virgolette smette di essere un punto geografico sulla cartina e diventa l’idea materializzata del tutto, contiene il mondo, non lo rappresenta, è il mondo. È il mondo che finisce e il mondo che inizia, il punto sospeso della Storia che dà avvio alla Storia auto-dialogica che viviamo oggi. Perciò sarebbe importante farne approfondite analisi e capire che Genova è un atomo inscindibile: nel suo nucleo elettroni danzano intorno a protoni e neutroni, ma l’unità fondamentale della materia esiste solo se la si considera nella sua complessità, non può essere scomposta.  

Per ora, però, proviamo a raccontare schematicamente i fatti.

Dal 20 al 22 luglio 2001 a Genova è  programmato l’incontro degli otto Primi Ministri/Capi di Stato dei Paesi più industrializzati del pianeta. In  risposta al vertice ufficiale, il più grande movimento mondiale mai visto si organizza per contestare le modalità e i contenuti della riunione, che è in realtà solo una grande vetrina per decisioni già stabilite, per lo più da organismi neanche democraticamente eletti come FMI, Banca Mondiale, WTO. 

I cosiddetti  NoGlobal – denominazione fuorviante per un movimento che si oppone alla globalizzazione dei mercati,  non alla globalizzazione in quanto tale – contestano un modello che mira al dogma della crescita del  commercio internazionale, in cui il 20% della popolazione globale controlla l’80% delle risorse, 1 miliardo e  300 milioni di persone vivono con meno di un dollaro al giorno (cioè ben sotto la soglia di povertà  individuata dalla BM in 2 dollari al giorno, sotto la quale vive metà della popolazione mondiale), 1.2 miliardi  non hanno accesso all’acqua potabile e 11 milioni di bambini all‘anno muoiono per denutrizione; criticano una gestione del potere che non si cura del fatto che basterebbe il 3% della spesa prevista per le sperimentazioni dello scudo spaziale americano per far fronte a queste urgenze. 

Il movimento si aggira per  il mondo da quasi due anni, da quando cioè il 30/11/99 esplose con la contestazione alla riunione del WTO  a Seattle (da cui un’altra definizione, “Popolo di Seattle”), per poi farsi trovare sempre vigile e  transnazionale fino al primo Social Forum Mondiale di Porto Alegre, in Brasile, nel gennaio 2001, che si conclude con la chiamata alla mobilitazione per Genova e con l’elaborazione della Carta dei principi di Porto  Alegre, che a stretto giro diventerà il punto di riferimento del “movimento dei movimenti”, che si riconosceranno a livello internazionale nei suoi proclami antiliberisti, anticapitalisti e antimperialisti, concependo il Social forum come uno spazio democratico, non autoritario e non violento di libero scambio e dibattito. 

A Genova, oltre alle dimensioni della contestazione, ciò che colpisce del movimento è la sua  eterogeneità: cristiani, associazionismo, ambientalisti, sindacati, antagonisti radicali, autonomi. Il  movimento dunque va assumendo un carattere fortemente internazionale, sintetizzando al suo interno  istanze differenti e molteplici. Tant’è vero che a Genova gli slogan saranno prevalentemente due: “Un altro mondo è possibile” e “Voi G8, Noi 6.000.000.000”. Altro elemento fondante è il mediattivismo, la documentazione diretta dell’evento in prima persona con un qualche mezzo di comunicazione, anche non professionale.

Per difendere il summit dalle moltitudini di contestatori che confluiranno in città, il Governo Berlusconi II appena insediato predispone il più grande apparato repressivo della storia della Repubblica, con uno spiegamento di 16.000 uomini tra Forze dell’Ordine e corpi dell’Esercito, istituisce una zona rossa inaccessibile, delimitata da grate alte cinque metri, file di container, e tante altre precauzioni, compresa  una batteria missilistica. Da questo nasce lo slogan intonatissimo “Genova libera!”. 

La tensione nei mesi precedenti sale esponenzialmente, sospinta dai media.

Il controvertice comincia lunedì 16 luglio con l‘apertura del Public Forum: seminari, conferenze, riunioni, preparazione dei cortei.  

Giovedì 19 il corteo dei migranti invade le strade: si balla e si canta con cinquantamila persone in  rappresentanza di cento Paesi, “una babele di lingue e un arcobaleno di colori”. L’aria è festosa, il corteo  scorre senza incidenti, colorato e comunicativo. 

Venerdì 20, l’atmosfera cambia radicalmente. Dalle 10 del mattino, il famigerato Black Bloc inizia ad armarsi e a scagliarsi contro i simboli del capitalismo, nel modo più evidente possibile, senza un solo intervento  delle FFOO che, anzi, si ritirano dal piazzale di Marassi, per riconquistarlo quando le tute nere hanno  completato la loro azione di danneggiamento dall’esterno del carcere e se ne sono andate.  Comportamento differente è riservato, invece, al corteo pacifico delle Tute bianche – circa 10.000 persone  – che viene fermato e attaccato a via Tolemaide all’altezza di corso Torino, quando cioè il corteo era autorizzato a percorrere altri 400 metri.

Da quel momento scoppia una battaglia che durerà 3 ore:  l’aggressività delle cariche è tale che le sentenze giudiziarie dichiareranno che le reazioni di alcuni dei  manifestanti sono atti di “legittima difesa”. Nel frattempo, alle ore 15, un plotone di polizia irrompe a  Piazza Manin e decide deliberatamente di caricare i cristiani della rete Lilliput che con le mani alzate e  dipinte di bianco gridano “No violenza”. 

Gli scontri a via Tolemaide si estendono anche nelle stradine laterali, con i blindati lanciati contro manifestanti a piedi e con atti di violenza raccapriccianti da parte dei  tutori dell’ordine: uno di questi episodi, quello di via Caffa, condurrà alla morte di Carlo Giuliani, centrato  da un colpo di pistola partito da una camionetta dei Carabinieri mentre tentava di lanciare un estintore  verso il mezzo, da una distanza di circa 4 metri. In Italia le FFOO non uccidevano manifestanti durante  scontri di piazza dal 1977. 

Per l’avvenimento più grave dei fatti del G8 non ci sarà nessun processo, nel 2003 verrà disposta l’archiviazione del procedimento: al presunto sparatore, il carabiniere di leva Mario  Placanica, verranno riconosciuti la legittima difesa e il legittimo uso delle armi e il GIP sosterrà la “teoria del  sasso”, secondo cui il proiettile esploso in aria dalla pistola sarebbe stato deviato da un calcinaccio prima di raggiungere la faccia di Carlo. Dalle foto risulta evidente la pistola puntata ad altezza d’uomo, ma, per citare i Wu Ming, partiamo da una verità di base: tutto quello che la maggioranza degli italiani sa della morte di Carlo Giuliani è falso. Per approfondire rimandiamo al documentario La trappola e alle controinchieste Niente da archiviare  e L’orrore in Piazza Alimonda. 

Sabato 21, nonostante gli eventi del giorno prima, sul lungomare di corso Italia sfilano tra le 250 e le  300mila persone, ma il copione non cambia: cariche, gas lacrimogeni (sparati ad altezza d’uomo), con i  black bloc che si dileguano e il corteo che subisce l’irruenza delle FFOO. La violenza, se possibile, è ancor più efferata rispetto al giorno precedente e vede poi scatenarsi una impressionante caccia all’uomo. 

Poco prima della mezzanotte, più di 250 agenti della Polizia di Stato fanno irruzione all’interno della scuola Diaz – Pertini, adibita ad alloggio notturno per i manifestanti.

Il verbale della polizia parla di una perquisizione per la sospetta presenza di membri del Black bloc nell’edificio. Si rivelerà invece una “macelleria messicana”, come ammetterà anni dopo il vice Questore aggiunto Michelangelo Fournier: gli agenti in tenuta antisommossa entrano e cominciano a picchiare, “quasi a casaccio, furiosamente” – dice il giornalista Lorenzo Guadagnucci, una delle vittime dei pestaggi – tutti i 93 occupanti della scuola. 62 riporteranno trauma cranico e due cadranno in coma.

Vengono introdotte dalle FFOO, come le stesse ammetteranno tempo dopo, due bottiglie molotov, recuperate in corso Italia nel pomeriggio, passate per molte mani e immesse nella Diaz da Pietro Troiani (fresco di promozione a vicequestore nello scorso novembre 2020), così da poter accusare i manifestanti di terrorismo e possesso di armi da guerra. Tutti i fermati saranno poi scagionati dalle accuse. 

Il 7 aprile 2015 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha  dichiarato all’unanimità che è stato violato l’articolo 3 CEDU sul “divieto di tortura e di trattamenti inumani  o degradanti” durante l’irruzione. 

Le FFOO, successivamente, invadono anche l’edificio di fronte, l‘ex scuola Diaz – Pascoli, sede del Media Center, spazio di auto/contro-informazione del movimento dove sono gli uffici e gli archivi informatici del servizio legale del Genoa Social Forum, che vengono distrutti, gli studi di Radio Gap e di Indymedia. 

Ma non finisce ancora qui. Ci sono da raccontare le violenze nella caserma di Bolzaneto, di cui ovviamente  non esistono immagini, ma molte testimonianze dirette. Gli arrestati riferiscono in prima persona di episodi  di tortura e di un clima di euforia tra le forze dell’ordine per la possibilità di infierire sui manifestanti, sia in cella che in infermeria. Conferme in tal senso arrivano da due infermieri presenti a Bolzaneto.

La giustizia italiana, non essendo previsto nell’ordinamento l’imprescrivibile reato di tortura, emana 7 condanne penali, mentre altri 37 imputati godono della prescrizione penale, ma tutti sono condannati al risarcimento in solido delle vittime, congiuntamente ai ministeri di riferimento, per una cifra complessiva di circa 10 milioni di euro. 

Questi, in sintesi, i fatti del G8 di Genova del 2001, definiti da Amnesty International “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dalla II Guerra Mondiale”. 

Simone Macchioni per NarrAzioni