Parlare di “terra” vuol dire più comunemente discutere di un ideale luogo del vivere (urbano o rurale) e non di un reale modello spirituale, politico, produttivo ed ecologico o di una concreta possibilità occupazionale. Il vero e proprio genocidio culturale perpetrato a danno dei contadini, una strage che ha eradicato dalla memoria e dalla pratica un’intera civiltà, ha reso le campagne periferie non solo geografiche ma soprattutto mentali, eclissando quella dimensione che Pasolini definiva paleocontadina e con la quale è svanita di certo l’estrema durezza del vivere che le era connaturata, ma anche un paradigma di resilienza e di comunità. 

La narrazione (e la realtà) della pandemia da Covid19, gli eventi estremi dei cambiamenti climatici e le devastazioni ambientali di ogni latitudine ci mostrano, come in una vetrofania, che abbiamo sbagliato tutto. 

Il pianeta, le persone, hanno bisogno di una vita radicalmente diversa che non può esaurirsi negli spazi cubicolari delle metropoli, nel grigiore del travettismo spirituale o nell’idea di una natura altra e selvaggia l’accesso alla quale è appannaggio dei parchi o, peggio, degli zoo. Sono ormai decenni che numerose esperienze europee e d’oltreoceano ci raccontano di un’aspirazione differente, di un costante tentativo di volo verso forme del vivere più leggere e ricche. L’introduzione di usi agricoli nei contesti urbani come gli orti, il superamento della dicotomia tra città e campagna attraverso le transition towns, pratiche come ecobox e re-urban ci parlano di centinaia di cittadini impegnati e condensati intorno all’agroecologia, l’apicoltura, il compostaggio di quartiere. Non sono soltanto improvvise polmoniti della modernità, non sono semplici fenomeni di ipossia da metropoli, ma una costante voglia di partecipazione reale nel bel mezzo della crisi più drammatica della “democrazia” rappresentativa e una voglia di “campagna” ormai ineludibile. 

Che la fusione tra città e campagna fosse non solo possibile, ma addirittura necessaria, è uno dei capisaldi teorici dell’Antiduhring di F. Engels (1878): “solo [in questo modo] può essere eliminato l’attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con quella fusione le masse che ora agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti saranno adoperati per produrre le piante, non le malattie”. Alla luce del coronavirus e dell’innaturale quanto ineluttabile caldo in arrivo – entrambi figli dell’antropocene – potremmo aggiungere che solo così sarà possibile imprimere l’indispensabile svolta in tema di emissioni climalteranti e perfino favorire l’accesso a condizioni migliori di vivibilità in periodi di contagi e quarantene. 

La fine della dicotomia tra città e campagna è rimasta perlopiù uno slogan. Nonostante il sogno degli architetti disurbanisti russi che teorizzavano la dispersione (dedensificazione) dell’habitat, della distribuzione dell’energia, della decentralizzazione della politica e nonostante la terribile evidenza dei ghetti di Stato nei quartieri malfamati o delle periferie deruralizzate in cui si producono fenomeni come quello della Terra dei Fuochi, siamo rimasti dentro l’incubo del capitalismo senza mettere in discussione nulla della città classica. La cancellazione pianificata a tavolino dei contadini ha completato il processo di urbanizzazione delle menti che, però, deve e può essere invertito con proposte politiche serie e attuabili sul piano nazionale/locale. 

Il governo del territorio deve passare attraverso scelte molto chiare sul modello agricolo da realizzare. 

La Francia ha recentemente varato proposte in termini di transizione agroecologica che – grazie ad una radicale revisione della PAC – premiano le realtà virtuose e tassano pesantemente quelle ancorate all’agricoltura convenzionale. Ma aldilà delle proposte sul welfare europeo, l’agroecologia offre, a ogni livello di scala, un esempio di sviluppo che si basa sulla sovranità alimentare, sulla partecipazione dal basso ai processi decisionali e su metodologie resilienti. I nostri comuni avrebbero mille modi per sostenere questo modello mettendo al centro dell’amministrazione ordinaria le aree agricole periurbane e marginali, in un’ottica di rivalutazione non solo dell’agricoltura locale, ma anche di miglioramento della qualità di vita nell’urbs strettamente intesa. L’elevata domanda di beni alimentari sani e naturali, di servizi ricreativi, di ristorazione e ospitalità rurale e – come ci ha duramente insegnato il Covid 19 – di attività didattiche in spazi a misura di bimbo, impongono che ci si occupi di accrescere le relazioni tra contadini e tra contadini e cittadini. Di stimolarne la partecipazione, di rendere accessibili le terre incolte ricadenti nelle proprietà comunali, di organizzare momenti formativi utili alla transizione ecologica e sportelli informativi indispensabili ad orientarsi nella giungla tecnico/normativa. La Consulta Agricola Comunale, ad esempio, potrebbe essere lo strumento amministrativo attraverso il quale contadini, associazioni, cooperative e cittadini esprimono la loro opinione ed essere protagonisti della loro storia. Uno “sportello agricoltura” potrebbe fornire informazioni sulla finanza ordinaria, sulle attività dell’amministrazione locale e regionale, sui mercati locali e sulle scuole contadine. 

L’agricoltura, considerata come un settore residuale dalle politiche economiche dominanti, deve essere ridefinita per divenire il centro di un’ampia rete di attività articolate attraverso la connessione di produzioni, servizi e opportunità. Bisogna invertire quella tendenza dello sviluppo industriale che ha esteso, riducendo le superfici di coltivazione, produzioni agricole intensive escludendo tutto il resto, che ha alimentato l’abbandono delle aree marginali e ha depresso l’autoriproduzione e la vendita diretta dei piccoli produttori. Assumere l’agricoltura come settore strategico significa porsi in un’ottica multisettoriale, integrata con l’ambiente, con l’assetto del territorio, con la rigenerazione delle aree urbane riferite all’agricoltura periurbana, con la ricerca scientifica, la sperimentazione e la riqualificazione del paesaggio. 

Le politiche per il governo del territorio non hanno assunto ancora questa visione, e risultano episodiche e frammentate le esperienze di pianificazione dei sistemi ambientali del territorio agricolo e forestale finalizzate a riqualificare colture, a salvaguardare ed estendere aree produttive di pregio, a tutelare gli assetti idrogeologici, a riqualificare naturalisticamente i bacini fluviali, ad aumentare la fertilità dei suoli, a regolamentare i microclimi, a valorizzare il paesaggio storico, a sviluppare economie locali attraverso la trasformazione dei prodotti tipici, l’artigianato, l’agriturismo. “Il settore agricolo, in questa prospettiva, non produce solo merci per il mercato, ma capitale fisso sociale, utilità collettiva, fruibilità del territorio; l’agricoltura può dunque trasformarsi in un servizio pubblico altamente produttivo di esternalità ambientali, economiche, paesistiche, sociali e culturali e come tale essere trattato nella spesa pubblica (anziché come un settore assistito.”(Magnaghi, 2000) 

Diviene quindi necessario promuovere azioni che incidano sull’organizzazione interna del ciclo produttivo agricolo trasformandolo e innovandolo profondamente in senso ecologico. E diviene allo stesso tempo indispensabile che la progettazione e la pianificazione del territorio agricolo e forestale si trasformino in strumenti fondamentali per lo sviluppo sostenibile. 

Se è vero, come dice Magnaghi, che “il progetto locale presuppone la crescita dei poteri e delle competenze dei comuni e degli enti territoriali sovracomunali, espressioni delle municipalità, in quanto locale di ordine superiore”, è anche vero che nel progetto di sostenibilità, fondato sulla valorizzazione territoriale, le aree di bordo, quelle latenti, quelle marginali, di scarto assumono un ruolo rilevante nella trasformazione del territorio nella fase neo-liberista. 

L’attuale sistema economico modifica l’urbano – per rispondere all’esigenza di crescita, di produzione e di consumo, di espansione e di trasformazione del lavoro – riconfigurando gli spazi attraverso la “distruzione creativa dei paesaggi precedenti.” (Harvey, 1989).

Lo spazio astratto dell’economia si materializza attraverso la sepoltura della complessità territoriale e ambientale. Il luogo scompare e con esso l’articolazione integrata dell’ambiente fisico, costruito, abitato; scompaiono le identità locali, i valori stratificati nel tempo e reinterpretabili nella fase di transizione dall’economia moderna a una sostenibile. 

Nell’idea dominante – che le crisi di sistema, ricorrenti, possano essere superate dall’avanzamento tecnologico e dalla possibilità di poter fare a meno definitivamente della natura e del territorio attraverso la costruzione di un ambiente totalmente artificiale – il suolo viene considerato come semplice supporto della costruzione. 

Il piano e il progetto si sottraggono al confronto con le questioni poste dalla necessità di una transizione ecologica, restando legati a una nozione tradizionale di suolo “senza cogliere il valore di infrastruttura funzionale nell’equilibrio dell’ambiente.” (Pavia, 2019). 

Osservando la città, o il paesaggio più in generale, possiamo individuare un serie di spazi incompiuti, indecisi, che non posseggono una funzione, in alcuni casi l’hanno posseduta; spazi situati ai margini dei processi funzionali attivi. Questi spazi sono spazi di opportunità per l’accoglienza della diversità, che viene tenuta fuori, respinta dagli spazi funzionali attivi possessori di una propria identità. 

La trasformazione del territorio, soprattutto in ambito urbano produce “avanzi” corrispondenti ad aree in attesa di modificazione, sospese tra ciò che sono state e ciò che diverranno, una sorta di limbo durante il quale, di frequente, avvengono processi spontanei di rinaturalizzazione. “Ogni organizzazione razionale del territorio produce un residuo.”  (Clément, 2004). 

Queste aree residuali, marginali acquistano un valore rilevante per la sperimentazione di proposte trasformative proiettate nell’ottica della transizione ecologica. Sia per rispondere alla mitigazione degli effetti derivanti dal riscaldamento globale, attraverso la progettazione adattativa di parti di città, sia per realizzare tasselli di una economia circolare passanti attraverso un rinnovato rapporto tra piano e progetto con il suolo, il sottosuolo e il costruito. 

La questione di fondo è utilizzare questi luoghi per una transizione verso un’economia non più dipendente dall’energia fossile con modelli insediati funzionalmente e morfologicamente nuovi. 

L’esigenza di ridurre le emissioni di gas serra è l’occasione per queste aree di promuovere ricadute positive per l’intero sistema urbano (Calthorpe, 2011) attraverso la realizzazione di reti pedonali e ciclabili, implementazione della dotazione di verde, conservazione del patrimonio naturale, risparmio energetico, riqualificazione, mixité funzionale e sociale, riduzione del consumo di suolo, densificazione, dove possibile, e connettività. 

Il cambiamento climatico è la conseguenza evidente dell’organizzazione della società dominata da secoli dal sistema economico capitalistico e dalla sua evoluzione. Da qui bisogna ripartire per leggere la crisi ecologica. Il mondo nel quale viviamo è malato. Il sistema che lo governa è orientato da una gigantesca quantità di denaro, concentrato in poche mani, in cerca di rapido rendimento. Questo genera una produzione di politiche non finalizzate al bene della collettività, ma agli interessi di pochi. 

Oggi serve un radicale mutamento attraverso il quale ridefinire la capacità di produrre, consumare, trasformare il territorio e gestire energia alle diverse scale. È necessario sperimentare nuove strade per dare speranza a un’economia e una società ecocompatibili. Tutto questo ha un prezzo, in termini di energie e investimenti. 

Oramai è ineludibile la necessità di parlare di lavoro in modo nuovo, ripensarlo, liberandosi dalla contrapposizione tra Lavoro e Natura, reinterpretando i due momenti non separatamente e quindi immaginando il lavoro-nella-natura e la natura-nel-lavoro, come ci dice J.W. Moore. Ma, allo stesso tempo, dobbiamo costruire la certezza di non dover dipendere più dalle fonti fossili di energia. 

Abbiamo bisogno di mettere a punto una strategia di lunga durata che faccia della cooperazione tra aree territoriali contigue il punto di forza per ispirare, indirizzare e consolidare una nuova governance, efficace e resistente, dando vita ad una nuova centralità diffusa con la potenzialità di essere insieme individuale e comunitaria. Individuale nella connessione all’innovazione gestionale e alla produzione cooperativa, e comunitaria nella consapevole condivisione di risorse locali e di senso comune. 

Questo presuppone la capacità di riscoprire la comunità locale e il territorio, di prestare attenzione e riconoscerne le risorse; di integrarle in un profilo preciso, capace di generare vantaggi specifici, di agire collettivamente. Generare, quindi, un territorio capace di maggiore resistenza e capacità, adatto a indirizzare le risorse verso un progetto di futuro collettivo riconosciuto dalla comunità. Un futuro che, certo, contenga una visione. Che preveda anche maggiore investimento in ricerca, in formazione ed educazione all’uso delle risorse. 

Bisogna mettere in campo una strategia più generale che unisca strettamente un nuovo modo di produrre, di trasformare, al risparmio e all’efficientamento negli usi dell’energia. Che ci porti fuori dal tunnel di quell’uso inconsapevole che genera enormi scarti.

Bisogna ricentrare la propria vita individuale e associativa assumendosi la responsabilità dell’uso dei beni, dei servizi, dell’energia, sforzandosi anche di conoscere ciò che accade alle cose, alle persone; delinearne la vita e raccontarne le tracce, ridurre consapevolmente la velocità con la quale attraversiamo l’esistenza. Ma, significa anche fare città più resistenti, nelle quali il consumo non accumuli residui nei territori contigui. Creare territori consapevoli, che cooperano, nei quali il ciclo di riuso, nelle varie forme, e poi del riciclo, infine dello smaltimento in piena sicurezza, possa trovare forma chiare e condivise. 

Tutto ciò significa dunque molte cose, dice Visalli: “bisogna, insomma, usare meglio le risorse; essere consapevoli della dinamica del loro esaurimento (e quindi potenziare al massimo le risorse effettivamente rinnovabili); potenziare, a parità di impronta, l’uso di risorse locali; stimolare la ricerca di nuovi materiali, nuovi processi, nuovi stili di vita orientati alla ‘casa comune’; puntare sulla durevolezza; riusare, anche in forme nuove e diverse; recuperare al termine del primo ciclo di vita con il massimo dell’efficienza ed il minimo di consumo di lavoro ed energia per unità; gestire i residui con il minimo danno”. 

Per cambiare direzione è necessario mettere in campo azioni alle diverse scale che allo stesso tempo coinvolgano tutti. Questo, non è solo “economia circolare”, è molto di più. Si tratta in realtà di ripensare la dimensione economica della nostra esistenza. 

Miriam Corongiu & Riccardo Festa 

Fonti

  • F. Archibugi – La città ecologica. Urbanistica e sostenibilità, Bollati Boringhieri, Torino, 2002 
  • C- Bianchetti – Spazi che contano, il progetto urbanistico in epoca neo-liberale, Donzelli editore, Roma, 2016 
  • N. Brenner – Stato, spazio, urbanizzazione, Edizioni Guerini, Milano 2016 
  • P. Calthoroe – Urbanism in the Age of Climate Change, Island Press, Washington DC, 2011 
  • G. Clément – Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata, 2005 
  • P.L. Crosta – Politiche. Quale conoscenza per l’azione territoriale, Franco Angeli, Milano, 1998 
  • P. Gisfredi – Ambiente e sviluppo. Analisi di una controversia irriducibile, Franco Angeli, Milano, 
  • D. Harvey – L’Esperienza urbana, Il Saggiatore, Milano, 1998 
  • D. Harvey – Geografia del dominio. Capitalismo e produzione dello spazio, Ombre Corte, Verona, 2018 
  • C. Landuzzi a cura di – Sistemi metropolitani e periurbano emergente, in Sociologia urbana e rurale n.69, Franco Angeli, Milano, 2002 
  • G. Maciocco & P. Pittaluga a cura di, La città latente. Il progetto ambientale in aree di bordo, Franco Angeli, Milano, 2001 
  • A. Magnaghi – Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000 
  • J. W. Moore – Antropocene o capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, Ombre Corte, Verona, 2017 
  • F. Musco – Rigenerazione urbana e sostenibilità, Franco Angeli, Milano, 2009 
  • G- Paba – Movimenti urbani. Pratiche di costruzione sociale della città, Franco Angeli, Milano, 2003 
  • R. Pavia – Tra suolo e clima, Donzelli Editore, Roma, 2019 
  • S. Sassen – Globalizzati e scontenti, Il Saggiatore, Milano, 2002 
  • A.Visalli – Industria 4.0 e le sue conseguenze: la sfida dell’occupazione e del reddito, Nella fertilità cresce il tempo blog, 2017 
  • M. Wackernagel & W. E. Rees – L’Impronta ecologica. Come ridurre l’impatto dell’uomo sulla terra, Edizioni Ambiente, Milano, 1996.