Nel periodo legato alla liberazione di Silvia Romano, ci si è interrogati spesso su cosa facesse Silvia, e se fosse così necessario il ruolo del volontario. Chi accusava questi ultimi di inutilità nell’operato e nel risultato delle missioni non essendo medici, e quindi figure fondamentali, o ingegneri quindi potenziali costruttori di ospedali, e chi invece difendeva a gran voce la libertà di scelta e di azione.

Ma chi sa veramente cosa fanno i volontari durante le missioni?

Parto con una premessa: non sono un medico né un ingegnere, ma un ‘inopportuno’ architetto. E non sono nemmeno una cooperante come Silvia Romano, ma una semplice volontaria.

Da circa 4 anni vado una volta all’anno per 15 giorni in Africa, in un piccolissimo paese del Benin di nome Sokponta. 

Il Benin è una lingua di terra tra il Togo e la Nigeria, ex Colonia Francese, punto di partenza della tratta degli schiavi nell’epoca coloniale e capitale del voodoo, ancora oggi venerato e praticato.

Di fatto solo i bambini parlano francese, perché vanno a scuola, tutti gli altri parlano Dacha, dialetto di alcuni villaggi del posto.

Stiamo parlando di un Paese dove le bambine per andare a scuola attraversano la foresta e spesso vengono violentate, a volte dagli insegnanti stessi. Parliamo di ragazzi che già dall’età più tenera si spezzano la schiena nei campi perché è l’unico sostentamento della famiglia, e parliamo ancora di un Paese che, fino a pochissimo tempo fa, abbandonava nel bosco tutti coloro che mostravano sintomi di stregoneria, e con stregoneria intendo sindrome di down, autismo o addirittura depressione. In una società basata sul culto del voodoo queste stregonerie vengono definite fatture, e per questo motivo, secondo le loro credenze, sei rovinato a vita a meno che non ti liberi del motivo della tua disgrazia, quindi spesso di un figlio o di un fratello con presunte anomalie. 

Certo se non si è mai stati volontari e non si è medici, è difficile capire cosa si vada in Africa a fare. 

Vi potrei dire solo per arrivare e vedere gli stessi bambini, o meglio IANDUNDUN (uomo nero in Dacha), che ti corrono incontro chiamandoti per nome, il tuo nome… Ma non è vero, ovviamente.

Uno dei progetti più importanti che la mia associazione segue è proprio un progetto medico sanitario, perché andiamo nei villaggi a fare vere e proprie visite. Visite mediche intendo. 

I villaggi spesso e volentieri sono popolati da persone che non hanno mai visto un medico in vita loro. 

Non avete idea di cosa questo possa voler dire. 

Non avete idea di cosa, per questo motivo, si possa incontrare. 

Mentre i medici, e solo loro, fanno visite a code infinite di persone, che vedono nelle visite gratuite un’opportunità imperdibile, pur non capendo esattamente di cosa si tratti, i volontari cosa fanno?

Vi dico io cosa faccio. E userò la prima persona singolare non per egocentrismo, ma per avvalorare la mia testimonianza diretta.

Prima di ogni visita medica nei villaggi, io divido e schedo ogni singola medicina lasciata dalla missione precedente, e vi aggiungo quelle appena arrivate con noi. 

Schedare vuol dire contare ogni singola pillola o bustina, dividerla per data di scadenza, studiarne il principio attivo e suddividerle in pacchi uguali per il numero di visite che si andranno a fare durante la missione. Questa mansione può impegnare anche per interi giorni.

Quando partono le visite mediche i volontari fanno diverse cose: giocano con i bambini per ore sotto il sole cocente (40 gradi all’ombra), gestiscono file interminabili di persone, misurano la pressione prima della visita medica per compilare la scheda con i dati del paziente e/o portano con una ambulanza in ospedale i casi più gravi, che necessitano di cure serie. 

E inizialmente era quello che facevo anche io.

Poi ho trovato un mio settore fisso: la farmacia. 

Una volta finita la visita medica, nel peggiore dei casi non ci sono cure per situazioni pregresse e non si può fare molto, in altri casi si porta il paziente in ospedale ed in altri casi ancora, praticamente tutti, si passa dalla farmacia per prelevare i medicinali prescritti appunto dai medici.

Distribuire i medicinali non è esattamente come pensiamo noi quando andiamo in farmacia a comprare una medicina. 

Dare i medicinali vuol dire che ogni paziente ha un dosaggio diverso e un quantitativo diverso. A volte parliamo di numero di pillole, per intenderci. 

La maggior parte dei pazienti ha la malaria, ma non basta dare una confezione di antimalarico, ognuna ha la sua dose in base al peso e all’età. Immaginatevi, quando arriva una mamma con 5 figli, tutti con la malaria, tutti con dosaggi diversi e lei non parla francese. 

Io, per poter parlare con i pazienti, per lo più anziani o genitori che non parlano francese, ho imparato le parole essenziali in Dacha per spiegare quando e come si prende un medicinale, perché ovviamente a una persona che non ha mai preso un farmaco devi anche spiegare come si prende un antibiotico.

Sempre io, per aiutare i medici, e velocizzare le visite, spesso mi affianco a loro e faccio i test della malaria ai pazienti, che per lo più sono bambini. 

Compito un po’ ingrato e di un certo peso psicologico. 

Il test di per sé non è difficile da fare… è simile al pungi dito per il covid per intenderci, ma quando lo fai ad un bambino urlante o a una persona che non ha mai visto un ago, non è cosa facile.

Il 90% delle volte è positivo!

Ho anche dipinto e disegnato le pareti del nuovo centro giovani aperto l’anno scorso, dove incontriamo anche donne a cui insegniamo le pratiche anticoncezionali, le norme igienico sanitarie e come gestire correttamente una gravidanza ed un parto. Il centro giovani è gestito da uno psicologo del villaggio che organizza piccoli eventi per i ragazzi.

Ho visto fare il pane nella panetteria che abbiamo costruito per le donne del villaggio. 

Ho aiutato a fare e a vendere le saponette dalla saponeria che abbiamo aperto sempre per le donne del villaggio.

Io, come architetto (e non ingegnere), ho aiutato e seguito i lavori di ampliamento dell’ospedale aperto anni fa, che fortunatamente, ha bisogno di essere allargato, invece che chiuso, come spesso succede in altri paesi dell’Africa, dove si costruiscono mostri di edilizia, senza poi porsi il problema che una volta terminato la gente deve poterci andare, e questo vuol dire metterci dentro dei medici, pagarli e rendere l’ospedale economicamente accessibile ai cittadini.

Poi, sono andata a visitare le scuole, perché altro progetto importante che seguiamo è il contrasto alla de-scolarizzazione. Oltre a dare borse di studio per proseguire gli studi, diamo delle monete, ovvero dei soldi, ai genitori per ripagare l’ora persa nei campi, e quindi la possibilità di andare a scuola per i ragazzi.

Non è semplice spiegare questi passaggi, uno potrebbe pensare che non sia giusto, ma ogni società ha le sue priorità, e davanti alla fame e il sostentamento tutto va in secondo piano. Infatti, non tutti i genitori vedono nella scuola delle possibilità future migliori, e del resto il motivo per cui fanno tanti figli è per avere più braccia da lavoro, quindi il loro pensiero è più che comprensibile. E’ molto importante comprendere e rispettare la società che si va a conoscere, altrimenti si finirebbe per fare solo atti di carità, ed è quello che, almeno la mia associazione, cerca di fare il meno possibile. Non invadiamo con la nostra cultura, ma cerchiamo di adattarci il più possibile alla loro. Non portiamo regali o doni caduti dall’alto, ma attiviamo progetti organizzati e gestiti in loco da persone del posto. Cerchiamo di non essere invadenti e spieghiamo che i soldi per l’ultimo pallone della Nike che ci chiedono non ce li abbiamo, ma abbiamo preferito usare quei soldi per comprare le medicine o il materiale per la scuola. Chiaro che questo mio discorso è fragile, e la linea della carità molto sottile, è quasi impossibile non oltrepassarla. Ma quello che cerchiamo di dare sono degli strumenti, essenziali ed imprescindibili, per creare delle possibilità: salute e istruzione.

E infine io, ribadisco, non sono un medico, ma una semplice volontaria. 

Ecco, quell’IO, sono tutti i volontari.

Volontari che decidono di prendere e pagare le spese per andare in Africa. Decidono di sacrificare ferie e viaggi per andare a fare il volontario, e questo non lo potrà cambiare niente e nessuno. 

Decidono anche di sottoporsi a vaccinazioni e terapie antimalariche.

Rimanere umani e tendere sempre una mano è una cosa che si ha dentro, non si può evidentemente insegnare. Ma il volontario riceve più di quanto dà, in termini di conoscenza di contesti e di persone, in termini di conoscenza del mondo nel suo tutto, di cui troppo si blatera e poco si sa.

Non so se è chiaro cosa fa un volontario, ma spero che tu ora abbia capito qualcosa di più. Soprattutto tu, mio caro HOIBO (uomo bianco in Dacha).

Viola Dressino