Spesso, soprattutto nel periodo del lockdown, mi sono chiesta cosa sarebbe successo, finita la transizione del covid. Quale ”normalità” sarebbe tornata? Quella precedente o una nuova?

Sicuramente il virus ci ha smascherati, portando a galla tutte le nostre fragilità di individui singoli, rendendo evidente come la perduta normalità, basata su individualismi, fosse molto fragile, e l’essere umano abbia bisogno vitale di una società strutturata da connessioni tra persone. Scambi di esperienze e presenze. Questo mi riporta alla necessità di rivedere i nostri bisogni primordiali, che spesso, dinanzi a una società complessa, tecnologicamente avanzata e politicamente strutturata, vengono confusi. La fine di un mondo non è la fine del mondo, la crisi ci dà la possibilità di creare un pensiero rivoluzionario che ci riporti in realtà alle origini di una società basata su comunità semplici e spontanee. Comunità che parlano di nuovo di cura, cura verso il singolo, come elemento inscindibile di un gruppo che si muove attraverso relazioni tra i vari componenti di una comunità, ove tutti sono persone fisiche inesistenti senza un pensiero più alto di gruppo funzionante. Abbiamo, dopo tanta siccità, bisogno di nuovo terreno grezzo e fertile dove far nascere nuove parole, nuovi concetti e rinnovate riflessioni.

Ho pensato spesso ai villaggi in Africa da me visitati come volontaria, dove per la prima volta ho davvero dato un senso al concetto di comunità, di cura, di appartenenza. Sarebbe bello far riemergere questi significati, in una società nuova. Una società protesa al futuro, in cui nulla e nessuno siano lasciati indietro: un unico moto continuo che porti tutti in salvo. 

Da questo concetto di rinascita sociale, mi collego alla mia esperienza di Supino. Non parlerò dell’importanza della partecipazione dei giovani -cosa vera-, o dell’interesse nell’ascoltare gli ospiti della Scuola di Politica, Giustizia e Pace, ma proprio del concetto di comunità sopra descritto che, spontaneamente, abbiamo creato.

Dove non esiste il giovane senza il vecchio, il curioso senza il saggio, e la conoscenza senza il sapere. Dove ogni singola esperienza diventa condivisa e fondamentale.

Questo è stato Supino per me. È stata la condivisione di aspetti personali della mia vita, con persone prima non conosciute: tre giorni in cui il tutto ha funzionato perfettamente. E’ stato vivere in case in pietra che conservano una spessa patina di saggezza, e al loro interno invece un sottile strato di intonaco bianchissimo, che faceva da cornice a un mobilio essenziale e moderno. Anche questo per me è stato un rimando, un ripartire dalle origini, dalla semplicità. 

In una società dove, prima dell’emergenza mondiale di un virus, che ci ha posto tutti sullo stesso livello, era già nata l’esigenza e la ricerca di condivisione, come testimonia il fatto che pensiamo sempre di più a spazi di lavoro comuni o la nascita sempre più rapida di Urban Hub, ma soprattutto la necessità di riappropriarsi del contatto con la natura, con l’esigenza di riabitare e di far rivivere borghi minori abbandonati, proprio come quello di Supino di Luisa Morgantini, che in questo villaggio restaurato ospita Assopace Palestina. Questo concetto di condivisione, se prima era una tendenza, ora è un bisogno impellente. Ripartiamo da qui, ripartiamo dalla responsabilità che abbiamo nel rispondere ai legami che ci uniscono inesorabilmente e al bisogno fisiologico che abbiamo di una rete di scambio tra esseri umani. Abbiamo bisogno di una collettività, di una polis, vera. 

Io a Supino ho vissuto questo, ho assaporato la semplicità necessaria di una comunità che nasce dal basso, da cui può fiorire un altro concetto di umanità, spogliato da pregiudizi e radicate diffidenze. 

Per me Supino è stata un’immersione attiva, reale, nella politica, nella giustizia e nella pace, nei loro significati più profondi. Uno scambio circolare tra persone unite tra di loro da rapporti sociali, linguistici e morali, da interessi e consuetudini comuni. 

E allo stesso tempo, nuovi. 

Viola Dressino