23 maggio 1992. Una giornata come tante.
Io quella strada lì la percorro sempre insieme alla mia famiglia, da Palermo verso Campobello di Mazara. Lì abbiamo una casetta al mare, che nei fine settimana raggiungiamo per superare lo stress accumulato.
Una giornata come tante dicevo. Improvvisamente la notizia: un’autobomba aveva devastato la macchina al cui interno si trovavano Falcone, la moglie Morvillo e la loro scorta… In quel momento mi tornarono alla mente tutte le polemiche nate attorno al trasferimento di Falcone. La verità è che molti di noi si sono sentiti traditi dalla sua decisione di continuare a lavorare da Roma abbandonando la trincea. Anche il suo amico Galasso gli riproverò la scelta di abbandonare una zona calda come la Sicilia per una poltrona più comoda.
La sua scelta di entrare nel “Palazzo” fu vissuta come un tradimento da coloro che rimanevano nel territorio.
In realtà molti di noi furono contaminati dai veleni del palazzo di giustizia. Ma dopo quell’attentato furono tante le domande che agitavano i nostri pensieri. Perché Falcone andò via? Davvero lui che era stato in prima linea, poteva essere “scappato” da una terra così martoriata? E perché avevano deciso di ucciderlo in modo così plateale scegliendo di farlo nella sua Palermo anziché a Roma dove si era trasferito? E perché aveva deciso di non perseguire i politici collusi di cui alcuni importanti collaboratori avevano fatto i nomi? Col tempo a tante domande sono state date delle risposte.
La vita è fatta a volte di verità scomode, a volte di verità negate.
Oggi la storia ci rimanda le opere di una persona consapevole di avere scelto una strada di legalità piena di incognite e destinata a una morte violenta prematura perché per la mafia il motto era: “Chi tocca i fili muore“. E lui i fili li aveva toccati. Sapeva del rischio che stava correndo. Falcone ebbe il merito di scardinare un sistema mafioso seguendo la pista degli affari, come diceva lui “la pista dei soldi” e, da quel momento, firmò la sua condanna a morte. Ma nella società civile cominciava un fermento destinato ad alimentare una voglia di legalità che covava sotto la cenere dei palermitani perbene. La morte di Falcone ci aveva lasciati soli, soli coi nostri sensi di colpa per non avere capito, ma coltivavamo ancora la speranza, che il testimone potesse essere raccolto dal suo fraterno amico, Paolo Borsellino.
E invece, in un’altra giornata come tante, la notizia della morte di Borsellino arrivò come un fulmine a ciel sereno.
Nessuno, dico nessuno, si sarebbe aspettato un attentato a così poca distanza, dall’altro eccellente attentato, quello del giudice Falcone. Quello di Borsellino fu un attacco, oltre che alle istituzioni, su cui gravava tutta la responsabilità di una politica collusa, alla società civile palermitana. Le lenzuola bianche, esposte a seguito della rivolta cittadina contro la mafia, dondolavano pigramente sulle ringhiere dei balconi e non si era ancora spenta l’eco del primo attentato che un altro, se possibile più spocchioso, più arrogante, più violento del primo, venne attuato.
Ricordo il nichilismo della società civile e la constatazione che lo Stato non c’era più, che la mafia aveva piegato le istituzioni alla barbarie della sua forza devastatrice e che niente poteva più essere come prima. Le parole di Caponnetto che ebbi modo di conoscere a casa di un professore di mia figlia con cui organizzavamo incontri e manifestazioni contro la mafia, risultavano essere una condanna a morte, non solo degli uomini giusti e di giustizia, ma anche della legalità. “È tutto finito! È finito tutto!”.
Ricordo ancora il fermento che circolava negli ambienti studenteschi di allora. Ci credevamo tutti, che qualcosa potesse finalmente cambiare. Le parole di Caponnetto: “È finito tutto! È tutto finito!” ci riportavano alla triste realtà di quel momento. La sconfitta fu dolorosissima e totale. Il nichilismo invase e permeò la società civile tutta.
La rivolta della gente verso le istituzioni fu feroce come feroce era stata l’uccisione di Borsellino che la mafia, collusa con le istituzioni (e questa è storia) aveva platealmente e pervicacemente voluto perseguire per marcare il territorio. Per dire: “Noi siamo qui e qui restiamo”. I tentacoli della mafia li abbiamo sentiti sul collo. Da allora altre terribili uccisioni ci sono state ma qualcosa è cambiato, a riprova del fatto che la società se unita, se ci crede, se si sente parte di qualcosa riesce ad essere incisiva. La mafia esiste ancora, cambia pelle, si adegua a nuove realtà utilizzando strumenti nuovi, ma come diceva Giovanni Falcone: “Prima o poi la mafia finirà”. Prima o poi.
Ivana Abbate