È passato più di anno dalla Prima delle sardine in Piazza Maggiore, “festeggiato” lo scorso 14 novembre attraverso un cortometraggio pubblicato sul profilo ufficiale del movimento sui social. In un anno disgraziato, in cui la comunità mondiale ha fatto la drammatica conoscenza del virus, le piazze sono legittimamente passate in secondo piano*. Oltre la protesta, il 2020 sarà ricordato come l’ennesimo anno di crisi. 

Le emergenze del nuovo millennio non si contano più.

Se si prendono in esame le fasi più tragiche dei fenomeni “arrivati” a toccarci da vicino, solo negli ultimi dodici anni si possono ricordare la crisi dei mutui subprime, la crisi dell’Eurozona, il genocidio dei migranti (alias “crisi” migratoria). Poi, la sindemia Covid-19 e la crisi sanitaria, l’ultimo momento in cui la macchina che abbiamo creato per vivere in sicurezza ha rivelato tutti i suoi limiti, tra i tagli giustificati in nome della follia neoliberista e la piaga della disinformazione (leggi: crisi; vedi: Brexit&Trump).

“Non vogliamo tornare alla normalità perché la normalità era la crisi” ha sostenuto in più di un’occasione Naomi Klein -e non solo lei. Già, perché ci sarebbe pure la crisi climatica, nella quale saremmo attualmente e pienamente immersi. Tuttavia, il realismo capitalista continua a regnare sovrano, mentre -per citare ancora il genio di Mark Fisher- il desiderio di tanti, di quelli che non ne possono davvero più, rimane tuttora senza nome. 

Mossi i primi passi nel 2021, gli attivisti del movimento si interrogano sul loro futuro, mentre la notizia dei primi vaccini arrivati in Italia offre la speranza di un “post-“ più vicino nel tempo. Nel corso di questi lunghi mesi, è stato aperto un dibattito interno, che ha visto la recente adozione di un modello di discussione online: un confronto plurale e organizzato su alcuni temi di attualità, tra cui il rapporto tra multinazionali e fiscalità nel nostro continente e la proposta di legge Gribaudo-Carbonaro sui lavoratori del settore culturale.

Ma “la questione” è ancora irrisolta: quale posto assumere nella società? In attesa di un verdetto definitivo, cui prenderanno parte tutte le anime del movimento, ciò che si può fare è tratteggiare una ricostruzione di ciò che, rispetto al punto di osservazione, stava e continua a stare “fuori”.

Riavvolgiamo per un attimo il nastro.

14 novembre (2019). La candidata del centrodestra per le elezioni regionali in Emilia-Romagna, Lucia Borgonzoni, invita il segretario della Lega ed ex ministro dell’Interno Matteo Salvini alla cerimonia di apertura della campagna in un luogo storico del capoluogo di regione: il Palazzo dello Sport. Sebbene non più al governo, dopo i fatti di agosto di cui tutti conserviamo un più o meno limpido ricordo, l’ex Ministro detiene ancora una sorta di egemonia mediatica, forte di tanti fattori che giocano a suo vantaggio.

Tra questi: complicità di parte delle reti televisive, un profilo social molto seguito e influente e, il più importante, un dibattito pubblico atrofizzato da decenni di rifiuto dell’analisi critica, di rincorsa al particolare o alla dichiarazione “sensazionale” e all’istituzionalizzazione del retroscena e dello scontro tra leader quali elementi indispensabili per l’agenda quotidiana. 

Problema niente affatto marginale: la cornice competenza-populismo, accettata da tutto lo spettro politico come terreno di scontro post-ideologico per il nuovo secolo, contribuisce a nascondere le differenze delle posizioni in campo. Occultando, di riflesso, la natura nazionalista, razzista e liberista della destra nostrana, tacciata di fascismo dai pulpiti della sinistra, in uno sbandato atto di condanna morale di un nemico del quale, in maniera più o meno consapevole, si sono nel tempo legittimate le idee giudicate in pubblico estremiste. -Era così; ora, se si sostituisce “Salvini” con “Meloni”, è così.-

Esistono tante ricostruzioni brillanti di questa fase tanto opaca, avanzate da scrittori, intellettuali, da quell’insieme di culture e sottoculture banal(izzal)mente detta “rete”. Per trovare anche qui un concetto chiave, risulta efficace quella dipinta da Marco Damilano nei suoi protratti editoriali sul “vuoto”, prodotto e artefice di una società -si diceva- in rete sempre più connessa ma scollegata, nella quale troppo spesso si comunica sul rumore. E della società liquida, quella senza corpi forti, sole barriere possibili all’indifferenza -cifra esistenziale dell’ormai tramontata società del benessere. 

Non è un caso che il sentimento originale delle sardine, quella voglia di costituire una rete di anticorpi al messaggio sovranista, la pretesa di una nuova partecipazione, antidoto all’indifferenza -appuntato in cima al manifesto del movimento-, non mirasse a una risposta di fini quanto di mezzi. Perché, senza questi ultimi, è diventato stramaledettamente difficile mettere a fuoco i primi. 

Una sindemia /purtroppo non/ dopo, la situazione non è cambiata.

Per costruire delle forme, capaci di porre fine al vuoto, un piano per la ripartenza targato finalmente Europa, per quanto di importanza cruciale, purtroppo non basterà. Non ci salverà. Una cosa, però, dovrebbe ormai essere ben chiara: eravamo e siamo vittime di un vuoto che abbiamo contribuito a edificare. E a cristallizzare. 

La conseguenza vien da sé. Se cambiare le cose significa mettersi in gioco per costruire altre condizioni, altre narrazioni, per chi viene da una bolla ciò significa rifiutare l’omofilia (fascismo degli antifascisti?); per chi è stanco di leggere informazioni approssimative, ciò significa darsi più da fare nella ricerca delle fonti, e adoperarsi nei limiti del possibile per farle diventare mainstream. 

Ma soprattutto, lo dico con convinzione e una punta di utopismo, significa mettere in comune: donare le singole energie a un processo condiviso per guardare con fiducia ed entusiasmo al cambiamento. Uso il termine “donare” non per nulla: un investimento così importante sul futuro non può che passare da un nuovo racconto. 

Una volta usciti dalla trappola della bolla, una volta dissolta la comunicazione veloce, rimarranno soltanto antidoti, idee; le nuove premesse di una rete aperta e inclusiva, della società società civile per la società civile. Una rete per educare alla diversità e all’uguaglianza: un laboratorio collettivo di formazione permanente, per imparare a comunicare l’alternativa. Per dare alle cose il loro vero nome.

Questo è il bisogno che le sardine hanno sollevato nelle piazze: forse, in fondo, si tratta soltanto di identificare un principio di discernimento. Ecco, giunti allora al punto, se saremo noi a farcene veramente carico, è ancora tutto da vedere. L’unica cosa che sappiamo è che, nel bene e nel male, saranno la partecipazione e le sue premesse a fare la differenza: a illuminare un possibile pertugio: a spegnere la Crisi. 

*ci si riferisce in questo frangente alle manifestazioni delle sardine; il 2020 è stato eccome un anno di piazze.  

N.d.A. Questo articolo è stato scritto prima dei fatti di Capitol Hill. Giusto un appunto: la semplificazione con cui il nostro sistema mediatico ha riportato avvenimenti tanti gravi è, anch’essa, molto grave. Temo che quanto successo negli USA non sia, come in molti hanno sostenuto, semplicemente l’ultimo giro di giostra di Trump. L’assalto alle istituzioni del 6 gennaio costituisce una ferita che, per quanto le sue origini siano da rintracciare certamente nel percorso storico statunitense, deve spingere a una seria riflessione anche il nostro Paese. Se è vero che i processi politici rispecchiano la struttura sociale, la domanda che deve tormentare la fase in cui ci troviamo non può che essere una sola: per quali condizioni culturali siamo disposti a batterci nei prossimi anni? 

Alberto Pedrielli 

Fonti