“La situazione politica in Italia è grave, ma non è seria”, scriveva Ennio Flaiano qualche decennio fa. E questa sembra la migliore parafrasi per descrivere il momento che stiamo vivendo nel nostro Paese. Proviamo a tracciare un quadro delle questioni cruciali del nostro tempo e del grado di preparazione con il quale ci apprestiamo ad affrontarle.

Punto primo, l’organizzazione del contrasto alla pandemia da Coronavirus.

In questi giorni si susseguono dichiarazioni gioiose ma prudenti, festanti ma caute da parte di tutta la classe dirigente riguardo l’arrivo del vaccino (o meglio, dei vaccini). Politici, scienziati, opinionisti e giornalisti si sbrodolano in continuazione riguardo al salvifico e storico traguardo raggiunto, per poi tirare il freno a mano dell’entusiasmo.

Il punto è il seguente: della batteria di vaccini ordinati e acquistati con accordi multilaterali a livello europeo, l’unico prodotto in Italia e sul quale il nostro governo aveva puntato è in netto ritardo rispetto ai due provenienti dagli Stati Uniti, rispettivamente il vaccino Pfizer, già in fase di macchinosa distribuzione per via delle specificità logistiche che richiede, e quello di Moderna. L’Astra-Zeneca, concepito ad Oxford e prodotto nella Penisola, è ancora impantanato nelle procedure di valutazione dell’Agenzia Europea del Farmaco. Ritardo che si accumula ad altro ritardo già annunciato nelle settimane precedenti.

A ciò va aggiunto che non è ancora partita una seria campagna di sensibilizzazione per spingere la totalità (o quasi) della popolazione nazionale ad accettare spontaneamente la vaccinazione (cosa più che mai consigliabile in un Paese pieno di obiettori), mentre si parla già di imporre l’obbligo, così da alimentare il solito sterile dibattito politico. Inoltre, non pare essere del tutto chiaro che questo vaccino, distribuito e somministrato in doppia dose nell’arco di un mese circa, non sarà affatto una soluzione definitiva al problema. Piuttosto, garantirà un’immunizzazione di circa un anno. Se nel frattempo non continueremo a essere cauti nei nostri comportamenti, ma soprattutto non sfrutteremo il margine di tempo che ci concede per organizzarci seriamente in vista di nuove future aggressioni epidemiche, possiamo stare certi che anche questa boccata di speranza finirà per andarci di traverso.

Se le autorità governative e amministrative continueranno con un atteggiamento falsamente paternalistico, condito da arrendevolezza di fronte alle puerili proteste della parte più insofferente e irresponsabile della cittadinanza, non staremo sereni a lungo.

Punto secondo, i finanziamenti europei e il Next Generation.

La compattezza e la forza dimostrata dall’Unione Europea durante gli ultimi mesi del 2020 sotto la guida di tre donne, Angela Merkel, Ursula Von der Layen e Christine Lagarde, sono la vera e unica nota positiva di un anno disastroso. Il 2020 rappresenta per il nostro Paese una mazzata da cui difficilmente potremmo sperare di riprenderci, se non ci fosse l’UE. In totale, all’Italia sono stati assicurati all’incirca 400 miliardi di euro, miliardo più miliardo meno, nel giro di un lustro.

Tra programmi SURE, MES, Next Generation e acquisto di titoli di Stato da parte della BCE (poco oltre i 100 miliardi di euro), siamo probabilmente il Paese che verrà aiutato di più ad affrontare questa terribile congiuntura. Se non moriranno oggi le velleità dei sovranisti, ci domandiamo tutti quando.

C’è poco da aggiungere, se non che in realtà dovremmo essere molto preoccupati. Se persino i rigoristi del Nord Europa hanno deciso di allargare tanto i cordoni, fino a spingersi ad emettere titoli di debito in comune con noi, vuol dire che siamo veramente arrivati alla fine di un’era. E non è difficile crederlo: basta guardare i numeri impietosi della nostra macroeconomia.

Senza citare i tassi di disoccupazione e inattività di giovani, donne e lavoratori in generale, la nostra crescita economica che ristagna da vent’anni oggi è crollata di oltre dieci punti percentuale sull’anno precedente. Il nostro debito pubblico è previsto superare abbondantemente il 150% in rapporto al PIL. Il deficit annuale è circa sei volte quello medio negli ultimi anni (180 miliardi rispetto alla media di 30 miliardi). Le perdite subite nell’ultimo anno dal settore trainante la nostra economia interna, ovvero il turismo, ha subìto un crollo di fatturato del 70% circa. E la crescita demografica e il tasso di natalità stanno crollando, persino nelle famiglie straniere.

Siamo di fronte ad un disastro. E così come il virus aggredisce con più violenza i lungo degenti, le persone anziane e i più fragili, allo stesso modo la pandemia ha dato il colpo di grazia al nostro sistema-paese. Eppure, non ci siamo ancora resi del tutto conto della gravità della situazione, non riusciamo ancora a vedere con lucidità quanto siamo sprofondati, forse perché siamo ancora in piena caduta. Non abbiamo la giusta prospettiva. Serve più distanza forse, per mettere meglio a fuoco.

Punto terzo, la ricostruzione.

Posto che siamo giunti all’anno zero della Repubblica, perché non c’è mai stato prima nella sua storia un momento peggiore, dobbiamo fare lo sforzo, doloroso, di provare a capire come ripartire. Proprio per queste ragioni, l’assurdo e bambinesco dibattito a cui assistiamo da giorni, in seno alla maggioranza che sostiene il governo Conte 2, riguardo al piano di ricostruzione e alle sue modalità attuative da presentare alla Commissione UE per ottenere la totalità dei fondi, appare imbarazzante. Urticante. Non tanto nei contenuti, che sono sacrosanti, perché qui stiamo parlando di come ridare vita ad un moribondo, il sistema Italia. Ma nelle modalità, come spessissimo accade.

A fronte dell’ennesima task force proposta dal nostro presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che per fortuna è abortita, risponde pubblicamente soltanto l’iniziativa del senatore Matteo Renzi, ex rottamatore e flagello delle minoranze, ora divenuto flagellatore di maggioranze (una sorta di nemesi personale, potremmo definirla). Il titolo del programma di rinascita proposto da quest’ultimo suona suggestivo ed eloquente: CIAO.

Ora, appellandomi a tutta la pazienza di cui non siamo più dotati, possiamo noi nutrire la minima speranza di fronte a questo asilo nido? Di fronte a queste sceneggiate dei soliti notabili che con tanta leggerezza giocano a fare gli statisti? Ciò che lascia basiti, in realtà, è la placida noncuranza dell’opinione pubblica a riguardo. Quelli che negli ultimi mesi hanno inveito contro la fantomatica “dittatura sanitaria” o contro le scelte economiche di questo governo, oggi non hanno nulla da dire? I nostri alleati europei ci stanno concedendo un’opportunità irripetibile nella storia per ribaltare le sorti del nostro paese nei prossimi decenni. E tutto è affidato a quel programma di ricostruzione che siamo chiamati a sottoporre loro. Se falliamo, sarà semplicemente un disastro.

Non contenta, la sorte ci sbeffeggia, ci canzona ulteriormente, poiché nel caso in cui questi personaggi falliscano, l’alternativa concreta del voto anticipato in piena pandemia ci spingerebbe dalla padella alla brace: una quasi certa vittoria della peggiore destra occidentale, quella guidata dal trio Salvini-Meloni-Berlusconi, sui quali non ho il cuore di infierire. Non soltanto, anche avessimo una classe politica con i fiocchi, capace di scrivere il piano di rinascita più bello del continente, e così non è, la nostra pubblica amministrazione non è in grado ad oggi di garantire la corretta programmazione e attuazione di questo famoso piano, così come non è certa di saper come spendere queste enormi somme di denaro, nemmeno nel caso in cui queste arrivino.

Se, dunque, la storia politica degli ultimi vent’anni ci lascia in eredità un sistema pubblico farraginoso e incerto, abbiamo davvero bisogno di questo pietoso teatrino, in un momento tanto delicato?

Punto quarto. Nel Paese che vorrei..

Desidero chiudere con una serie di auspici e proposte. Perché sono necessari per non abbattersi del tutto, psicologicamente. E per sottolineare come un ruolo fondamentale in questa partita ce l’ha ciascuno di noi, come ci deve ricordare lo spirito sardinesco degli albori.

Nel Paese che vorrei, il 90% della popolazione si vaccinerà spontaneamente, senza che nessuno glielo imponga. Non perché sia contento di farlo, ma per rispetto di tutte le vittime, di tutti i nostri nonni e le nostre nonne, isolati e soli, di tutti coloro che si stanno battendo con la loro vita per salvare la nostra. E un po’ anche per rispetto di noi stessi, magari.

Nel Paese che vorrei, l’Unione Europea è vista come un’opportunità di crescita e di maturazione democratica, politica ed economica. Non esente da critiche, ma che siano costruttive, in vista di un bene superiore e impensabile fino a meno di un secolo fa: la pace e la cooperazione allo sviluppo nel continente.

Nel Paese che vorrei, l’opinione pubblica partecipa al dibattito politico, senza dividersi ideologicamente o per convenienza personale, senza farsi trascinare dall’emotività isterica alimentata da certi sciacalli, ma pensando sempre che le scelte di oggi ricadranno sulle generazioni di domani. E nel fare questo è aiutata da un sistema dell’informazione solido, libero, indipendente, graffiante.

Nel Paese che vorrei, infine, la classe dirigente dei principali organismi politici e sociali capirebbe che ci troviamo alla fine di un’era. Che la democrazia italiana, lo Stato, i partiti, le imprese, i lavoratori, gli studenti devono tutti impegnarsi a ridisegnare la casa comune. Devono ridefinire le fondamenta stesse della nostra vita insieme, perché così come siamo ora ci stiamo semplicemente estinguendo. Non soltanto in termini demografici, sotto tutti i punti di vista. E l’Italia non se lo può permettere. Noi non possiamo permetterlo.

Maturata questa consapevolezza, si avvierebbe di conseguenza una fase costituente, in cui tutte e tutti insieme, partendo dall’architettura istituzionale e dalla divisione dei poteri, dalla giustizia sociale e dalle libertà individuali, dalla conversione ecologica delle nostre società, gettiamo finalmente basi nuove, lasciandoci alle spalle il vecchio che non funziona più e valorizzando quanto di buono c’è.

Buon 2021 a tutte e tutti noi.

Francesco Ciancimino

Fonti